La novella tra Testo e Ipertesto: il Decameron come modello IX

IX. Tutto torna, ci pare, al Lettore. Se Edgar Allan Poe (The Philosophy of Composition, Graham's Magazine, February, 1842), sosteneva che la vera unità compositiva di un'opera letteraria consiste semplicemente in ciò che può essere letto in una sola seduta (visto che, tra due sedute, gli affari del mondo già si intromettono e la bella totalità intuitiva, l'intesa tra testo e lettore è irrimediabilmente perduta), allora l'autentica unità compositiva del Decameron non può che essere, dal punto di vista dell'ordo autoriale (e del Lettore Modello), se non l'Opera intera almeno la singola Giornata (secondo la struttura indicata appunto dal titolo Decameron); ma dal punto di vista del lettore "empirico" essa può certo ridursi, senza compromettersi irrimediabilmente, fino a quel minimo comune denominatore che è la singola novella (unità narrativa discreta, atomica, irriducibile, non sgangherabile, secondo Eco, in questo caso seguace non di Pym ma di Poe). Non si discute qui il dato compositivo (pur se rilevante) dell'organizzazione autoriale presumibilmente a posteriori dell'opera a partire dalla circolazione di singole novelle o raccolte di novelle. Il fatto che i primi lettori (empirici) del Decameron dovessero essere spesso distratti (come il lettore odierno, per quanto insonne esso sia) dai loro negotia mondani (a differenza delle donne melanconiche idealmente relegate nello spazio ristretto dell'otium domestico, spazio parodicamente "idealizzato" come luogo virtuale di una lettura continua) rende chiaro che fin dalla sua struttura, il modello comunicativo decameroniano contiene in sè, inseparabile, il proprio anti-modello, affidato alla "libertà" (se non alla libido) del suo lettore futuro, un modello "galeotto", se vogliamo seguire fino in fondo l'analogia della lettura interrotta.

Che i dieci membri della Brigata, secondo l'osservazione di Auerbach, non assurgano ai nostri occhi al rango di autentici personaggi, ma rimangano pedine del gioco (a "carte da gioco" li aveva paragonati già Sklovskij) (49), portavoci molteplici tanto della voce autoriale che dell'Intentio Operis, ci fornisce la conferma che ciò che conta è in fin dei conti l'evento che incarnano: che narrino oltre che quel che narrano e a che punto lo narrano (50). Il narrare come simbolica "negoziazione" e interpretazione di un Mondo umano non razionalizzabile altrimenti. E, per completare la nostra difesa di un Ipertesto virtuale del Lettore, non è un caso che l'Autore si ritragga, dissimulando così la sua autentica intentio, proprio nel punto in cui, circa a metà dell'Introduzione, abbandonato il ruolo di semplice testimone oculare della peste che travolge l'ordine civico e rischia di minare alle fondamenta la "forma sociale", i modelli culturali in cui fervidamente egli crede, dà l'avvio alla narrazione vera e propria; una soglia interna questa da segnalare (insieme allo speculare e strutturalmente strategico intervento della VI giornata) come il luogo in cui l'intentio Auctoris fa simultaneamente posto e appello, dissimulandosi una volta di più, alla libertà e sagacia interpretativa dei suoi lettori (e lettrici) futuri, nel punto in cui si accingono ad iniziare la loro (rinnovata) esplorazione dell'edificio, palazzo, giardino o labirinto decameroniano: "...nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina..."

(M.R., M.P.)

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