I tre giardini
nella scena paradisiaca
del De hominis dignitate di Pico della Mirandola

Pier Cesare Bori
(Annali di storia dell'esegesi 13.2 (1996): 551-564)

      1. Nel 1496 Gianfrancesco, affezionato nipote di Giovanni Pico pubblicò, tra le altre opere dello zio, a due anni dalla sua morte, quella «elegantissima oratio» che sarà più tardi intitolata «De hominis dignitate». Giovanni Pico l'aveva concepita come introduzione alle sue «Novecento tesi», in uno straordinario anno 1486. Quanto segue è dedicato alla rilettura delle pagine iniziali di questo Discorso sulla dignità dell'uomo, probabilmente le più celebri dell'umanesimo italiano, soprattutto per mettere in luce il multiforme immaginario paradisiaco che vi soggiace.

      Pico comincia il Discorso con il riconoscimento della dignità della creatura umana, «magnum miraculum», come attesta Asclepio, accanto ad «Abdala Saraceno». Dal suo punto di vista però la dignità umana non si fonda tanto su antichi luoghi comuni (il primato dell'uomo fondato sulla sua centralità nell'universo), ma sul fatto che l'uomo, non avendo fissa immagine e potendo così liberamente condividere l'essenza delle diverse creature, potrà alla fine attingere l'identità finale con Dio.

      Ricordiamo le parole con cui Dio si rivolge alla sua creatura:

      Stabilì infine l'ottimo artefice che a colui, cui non poteva dare nulla di proprio, fosse comune tutto quanto era proprio dei singoli. Prese dunque l'uomo, opera di immagine indefinita, e postolo nel centro del mondo così gli parlò: « Non ti abbiamo dato, o Adamo, né una sede determinata, né aspetto peculiare, né alcuna funzione speciale, affinché tu possa ottenere e possedere secondo il suo desiderio e consiglio quella sede, quell'aspetto, quella funzione che ti sarai scelto. La natura definita degli altri è costretta entro leggi da noi prescritte. Tu, non costretto da alcuna angustia, la definirai secondo il tuo arbitrio, cui ti ho affidato. Ti ho posto nel mezzo del mondo, perché di là potessi, guardandoti intorno, scorgere meglio tutto ciò che è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu possa tranquillamente darti la forma che vuoi, come libero e sovrano scultore e artefice di te stesso. Potrai degenerare negli esseri inferiori, i bruti; potrai rigenerarti, se lo vorrai, nello cose superiori, divine» (132 r).1

      Sin dall'epoca della sua morte prematura, la figura di Pico della Mirandola continua ad attrarre l'immaginazione popolare e a richiamare l'attenzione della ricerca. Il centenario della sua morte ha dato occasione a convegni scientifici, nuove traduzioni sono apparse, insieme con ricerche sulle sue fonti. In tutto questo fermento, permane tuttavia, ormai da decenni, la divaricazione fra due fondamentali atteggiamenti interpretativi intorno a Pico, e intorno alla pagina che ho appena rievocato.

      Resistendo alla tendenza dominante dell'interpretazione pichiana che va da Gentile a Garin, da Cassirer a Kristeller, sino, agli ultimi contributi che insistono sulle connessioni tra Pico con la cultura magica, astrologica, esoterica, cabbalistica, un'altra tendenza vede in Pico la continuità con la tradizione teologica, dalla Bibbia, ai Padri, alla teologia scolastica. Fra i rappresentanti di questa tendenza, Henri De Lubac spicca con il suo Pic de la Mirandole2 per il genuino pathos e per l'alto grado di erudizione Con stile e sensibilità differente, H. Reinhardt con suo Freiheit zu Gott. Der Grundgedanke des Systematikers Giovanni Pico della Mirandola3 insiste egualmente sul carattere premoderno del pensiero «sistematico» di Pico.

      Le pagine che seguono sono ispirate dal desiderio di fare passi avanti nell'intelligenza delle prime pagine del Discorso, a partire dalle loro fonti, piuttosto che dal bisogno di prender posizione fra i due partiti, anche se debbo riconoscete il mio debito a quanti hanno insistito sull'importanza della prospettiva teologica, per comprendere il Pico, e il suo capolavoro, il suo Discorso.

      1. IL GIARDINO DELL'EDEN

      Parlando di fonti, ci si deve intendere. Mi riferisco qui a quanto sta a fondamento del pensiero pichiano, nel Discorso, non alle innumerevoli autorità di ogni tradizione cui Pico si riferisce, con una selva di riferimenti, allusioni, figure che solo in piccola parte i commentatori moderni sanno decifrare.

      Ed eccoci dunque ai giardini nella scena paradisiaca, secondo quanto nel titolo ho suggerito. Ecco anzitutto, il giardino dell'Eden, secondo Gen 2. Il racconto genesiaco è ovviamente essenziale, nonostante innumerevoli e profondi rimaneggiamenti.
      a) È biblica la sequenza degli atti creativi che pongono Adamo al centro di una creazione già compiuta, anche se lo svolgersi del procedimento creativo è diverso da quell'«esamerone». La creazione qui avviene dall'alto in basso: la zona sopraceleste, gli astri animati, gli animali sulla terra, l'uomo.
      b) È biblica l'idea di un discorso di Dio alla nuova creatura, ma i contenuti sono assai diversi: non la proibizione di accedere all'albero della conoscenza, ma l'invito ad orientare il desiderio, la conoscenza e l'essere intero verso la meta più alta. In questo, e non nel rispetto della proibizione, consiste la vocazione umana. È come se il discorso divino tenesse conto anche di Gen 3, 21: «Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male».
      c) È biblico il tema dell'immagine, ma l'uomo in Pico non è creato ad immagine di Dio, ma è «opus indiscretae imaginis», non ha immagine predefinita (cfr. poco più avanti «non esse homini suam ullam et nativam imaginem»).4
      d) Ed è biblica l'idea della sovranità sulla creazione, espressa anche, in Gen.2, con la facoltà di attribuire un nome. In quest'idea, molto importante nel De dignitate et excellentia hominis di Giannozzo Manetti e in Marsilio Ficino,5 G. Gentile vide l'origine del concetto di «regnum hominis».6 In Pico l'idea del dominio esiste, nel senso che la creatura umana con il suo sguardo domina le cose, e anzi può diventare quella cosa che vuole, come microcosmo che contiene in sé i principi, le ragioni seminali di ogni cosa. Ma il suo fine non è questo principalmente; il suo fine è di trascendere ogni principio (vegetale, animale, razionale, intellettuale) sino all'unione mistica con la divinità, che egli ritrova al centro del suo cosmo interiore, attraverso lo spirito. E solo dopo di tutto questo potrà avere veramente il dominio del creato:

      Colui che è stato posto sopra di tutto, se, non contento della sorte di creatura alcuna, si raccoglierà al centro della sua unità, fatto un solo spirito con Dio, nella solitaria oscurità del Padre, sarà prima di tutto (132 v).7

      La dignità umana non consiste anzitutto nel dominio orizzontale sul cosmo ma in una tensione verticale verso una meta non creaturale. Ecco perché Pico va oltre al contenuto della lettera 41, 4 s. di Seneca, che esalta la superiorità e la quasi-divinità della creatura razionale. Pico evidentemente ha presente l'idea stoica espressa con grande efficacia nella lettera di Seneca (ciò non è stato ancora rilevato, a mia conoscenza), ma non se ne accontenta.8 Egli vuole imprimere alla sua creatura una tensione che non è presente nella staticità della condizione paradisiaca biblica, e per far questo cambia il quadro, ed evoca un altro giardino.

      2 IL GIARDINO DI ZEUS

      Il dinamismo insito nella creatura umana, nel racconto pichiano deriva la sua forza e qualità peculiare dall'influsso diretto di una fonte platonica, il Simposio. Singolarmente, mentre è stata notata la presenza del mito di Epimeteo (Protagora 321c-d), la sostanziale influenza del Simposio (interpretato da Ficino nel suo De amore, e dallo stesso Pico nel Commento nel medesimo 1486) sembra sfuggita a precedenti analisi, per quel che ne so. È noto il racconto, secondo cui Eros fu concepito da Poros (risorsa ) e Penia (povertà) il giorno della nascita di Afrodite, nel giardino di Zeus. Per questo Eros ha una natura carente, intermedia tra ignoranza e sapienza e sempre alla ricerca di questa (Symp. 203d-204c).

      Non è inopportuno ricordare come già Origene vedesse nella storia un riflesso del racconto genesiaco. Nello scritto Contro Celso (IV, 39) egli replica a Celso che «volge in commedia la storia del serpente» e la ritiene «una leggenda come quelle che si raccontano alle vecchiette». Ma, dice Origene, anche il mito platonico del Simposio potrebbe parere tale, e invece è di sommo interesse, perché adombra il racconto genesiaco (Poros sta qui per Adamo, Penìa per il serpente, il «giardino di Zeus» è il «giardino di Dio»), anche se il percorso per cui Platone poté venirne a conoscenza non è ricostruibile. La prima versione latina dell'opera origeniana era apparsa pochi anni prima del Discorso pichiano, nel 1481 a Roma, ad opera di Cristoforo Persona, che la dedicava a Sisto IV. Pico la possedeva.9 Sappiamo come Pico difendesse la memoria origeniana: «È più ragionevole credere che Origene sia salvo, che credere che Origene è dannato»: era una delle sue Conclusiones.10

      In ogni caso il commento di Ficino al Banchetto platonico, il De amore, è ben presente in quegli stessi anni a Pico, che lo critica più volte nel Commento alla canzone del Benivieni. Nel De amore ampio spazio è dato all'esegesi della nascita di Eros, il giorno della nascita di Venere. Il Commento tratta distesamente «Del nascimento di Amore e quello che si intende per li orti di Giove e per Penia e per i natali di Venere».11 Una delle 900 tesi riguarda precisamente l'«hortus Iovis».12

      Ora, tanto nel Discorso quanto nel Simposio

      a) troviamo un elogio di qualcuno - Eros, e rispettivamente la creatura umana - non per la sua attuale dignità, basata solo su stereotipi e luoghi comuni, ma per le potenzialità di attingere le mete più alte, esplicando le sue capacità;
      b) troviamo qualcuno che è in condizione intermedia, «né mortale né immortale, né terreno né celeste»;
      c) troviamo qualcuno posto nel mezzo («medium», metaxù) nel Simposio), capace di attingere, attraverso l'amore della sapienza, le realtà supreme.
      d) troviamo la priorità dell'amore, del desiderio, della volontà come sostanza ultima dell'essere umano, «cui datum est id habere quod optat, id esse quod velit» (e ancora: «possumus si volumus... id simus quod esse volumus... Erimus illis, cum voluerimus, nihilo inferiores»), mentre l'elemento intellettuale non è contro, ma dentro allo sviluppo spirituale, retto dal dinamismo del desiderio (qui c'è anche un parallelismo tra l'ascesa descritta alla fine dell'intervento di Diotima e l'uscita dalla caverna in Repubblica VII).

      Certo già in Plotino del resto gli elementi menzionati sopra trovavano una loro sintesi, che può essere presente a Pico,13 ma l'influsso del Simposio platonico appare qui diretto, rispetto all'intellettualismo con cui in genere Platone è letto dal neoplatonismo umanistico (e dallo stesso Pico più scolastico, nelle Conclusiones e nel Commento) ed è fedele allo spirito originario del testo, nel quale eros è filosofo e cerca sophia, prima di possederla.

      Il figlio di Eros e Penia si fonde dunque alla creatura fatta di terra e di spirito, e mentre nel mito biblico c'è una proibizione di desiderare la conoscenza, qui l'ammonizione divina rivolta alla «creatura di immagine indefinita», riguarda invece l'orientamento del desiderio che deve sospingere la conoscenza sino alla sapienza e identità più alta. Il percorso che viene additato alla creatura senza immagine passa attraverso le immagini, per andare oltre ogni immagine, trovando appagamento solo nell'identità finale con colui che al di là di ogni immagine, abita nell'oscurità.

      3. IL PARADISO DEGLI ANGELI

      A questo punto la fonte platonica è insufficiente per illustrare metaforicamente lo sviluppo verticale della vocazione della creatura-demone. Pico allora cambia scenario, invitando a spostarsi dall'Eden, dal paradiso delle origini, al paradiso celeste. Egli si avvale il modello dell'ascensione mistica a tre stadi (la purificazione; l'illuminazione e la perfezione, mutuato esplicitamente dallo pseudo-Dionigi Areopagita, il cui platonismo elaborava a sua volta esperienze visionarie (2 Cor 12, 2-4) e formule caratteristiche del lessico spirituale di Paolo (la tensione spirituale, Fil 3, 13, l'epèktasis) e il «correre» (1 Cor 9, 24).14

      Disdegniamo le cose terresti, disprezziamo quelle del cielo, e abbandonando infine tutto quello che è nel mondo voliamo alla corte che è oltre il cielo, prossima alla somma divinità. Là, come ci trasmettono i sacri misteri, i Serafini, i Cherubini e i Troni hanno i primi posti: di questi anche noi, incapaci di cedere insofferenti del secondo posto, emuliamo la dignità e la gloria.

      La destinazione umana consiste precisamente nell'emulare gli angeli: i Troni, più lontani da Dio, rappresentano la vita attiva disciplinata; i Cherubini, la contemplazione, ovvero la vita intellettuale che si dirama nelle varie discipline filosofiche, e poi le unifica dialetticamente come nel «curriculum studiorum» di Rep. VII; i Serafini, i più vicini a Dio, rappresentano l'unione mistica nell'amore. In questa prospettiva, la filosofia raggiunge il suo significato più alto: il Discorso è anche la sua fondazione come necessario stadio intermedio nel processo mistico.15

      Con prova della fondatezza del suo modello di percorso iniziatico a tre stadi, Pico ricorre a una serie di autorità di diversa provenienza:

      1. San Paolo che nella sua visione (2 Cor 12, 2-4), secondo Dionigi Areopagita vide il triplice coro angelico, che stanno a significare la «purgatio», l'«illuminatio» e la «perfectio»;
      2. Giacobbe che vide una scala che saliva dalla terra al cielo e gli angeli salire e scendere(Gen 28, 12).
      3. Il detto di Giobbe: «egli fa pace nei luoghi eccelsi» (25, 2). La pace va per seguita attraverso i tre stadi.
      4. La dottrina mosaica e cabalistica a proposito della triplice struttura del tempio a Gerusalemme (Es. 25 s.).
      5. Oltre ai «misteri mosaici e cristiani», c'è la «teologia degli antichi», e cioè i «misteri dei greci»: la manìa socratica, i precetti delfici (medèn àgan: «nulla di troppo» gnòthi seautòn «conosci te stesso» and ei «tu sei»: i tre stadi), la dottrina pitagorica;
      6. E infine gli Oracoli caldaici, che Pico attribuiva a Zoroastro.

      Pico certamente vuole impressionare i suoi lettori con una erudizione di cui oggi in realtà cogliamo facilmente i limiti. Ma al di là dei contenuti, ci colpisce la sua volontà di stabilire il carattere universale di un paradigma a tre stadi dell'evoluzione mistica. A proposito di questo universalismo, sono convinto trattarsi di qualcosa di più di un ornamento retorico o di un espediente apologetico a servizio di un universalismo cristocentrico. Del cristianesimo di Pico non è da dubitare, dall'inizio alla fine della sua breve vita; eppure nel Discorso colpisce l'assenza di riferimenti cristologici (si veda come, nel Discorso, la stesse parole di Gesù vengono trasformate e messe in bocca alla «Teologia»).16 A fondamento di questo atteggiamento universalistico non sta certo la moderna riduzione storico-critica della figura di Gesù, ma al contrario, si direbbe, l'espansione senza confini della cristologia, sino alla sua tendenziale identificazione con il tema antropologico. La perfezione, di cui si parla e cui si tende nel Discorso, è quella dell'anèr tèleios, capace di abbracciare con la sua conoscenza tutta la realtà, secondo «ampiezza, lunghezza, altezza e profondità» (Ef. 3, 18). Ogni umano per il fatto di essere umano è già potenzialmente questo secondo Adamo.

      La prima parte del Discorso termina con una invocazione agli angeli Raffaele, Gabriele, e Michele (che stanno ancora per la morale, la filosofia e la teologia). La seconda parte del Discorso sarà piuttosto a difesa delle sue scelte intellettuali. Anche qui le suggestioni platoniche saranno essenziali, ma la figura che si delineerà sullo sfondo, più grande di Pico, sarà quella di Socrate che fa apologia di sé stesso, piuttosto che di Diotima.

      4. «TIBI SILENTIUM LAUS»

      Dalla creatura terreste-spirituale, al demone, all'angelo; dall'Eden al giardino di Zeus, alla corte celeste: questi in sequenza i contesti metaforici cui attinge Pico, nel delineare la vocazione umana. Rimane tuttavia da notare come nel passo su cui abbiamo più concentrato l'attenzione lo stesso modello angelico sia considerato transitorio. Leggiamo il brano più ampiamente:

      O somma liberalità di Dio padre, o somma e mirabile felicità dell'uomo cui è dato di avere quanto desidera, di essere ciò che vuole! I bruti nel momento stesso della nascita recano seco dall'utero materno ciò che possederanno. Gli spiriti superni o dall'inizio o da poco dopo furono ciò che sono per sempre dopo. Nell'uomo nascente il Padre nascose i semi di ogni genere e i germi di ogni vita. A seconda di quali avrà coltivati, cresceranno e daranno in lui frutto. Se saranno vegetali, sarà pianta. Se sensibili, sarà bruto; se razionali, animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di creatura alcuna si raccoglierà al centro della sua unità, fatto un solo spirito con Dio, nella solitaria oscurità del Padre, colui che è stato posto sopra tutto sarà prima di tutto.17

      Quando più avanti(133r) Pico presenterà il modello a tre stadi di Paradiso angelico, indicando nei Serafini l'ultimo stadio, andrà incontro a una certa contraddizione con questo passo, perché là considererà la condizione del serafino come condizione suprema, qui sembra suggerirne, più coerentemente con la teologia del trascendimento infinito, dell'epektasis, l'insufficienza e la transitorietà. Egli pensa infatti che al di là delle varie ragioni seminali che l'anima alberga, e che consentono all'umanità di assumere versatilmente ogni sorta di immagine, ivi compresa quella angelica, ci sia in essa un centro di unità, in cui risiede lo stesso Spirito di Dio, un centro cui bisogna tornare, per ritrovare l'unità con il Padre che risiede nell'oscurità.

      A differenza dalla fonte platonica, la conclusione del percorso mistico non ha a che fare con la luce, ma con la «solitaria oscurità del Padre». Qui il modello è l'esperienza di Mosè sul Sinai, secondo teologi come Filone, Gregorio di Nissa18 e soprattutto Dionigi Areopagita. Si toccano qui i limiti della possibilità di recepire Platone nel contesto cristiano (ed ebraico). Più avanti, argomentando nel suo De ente et Uno a favore di Aristotele contro la pretesa di Platone che l'unità sia sopra l'essere, e allineandosi invece con la tesi tomista del primato dell'«esse» sull'«essentia», egli citerà ancora la teologia mistica di Dionigi, secondo quale di Dio in definitiva si può dire solo ciò che non è:

      Neque veritas, neque regnum neque sapientia neque unum neque unitas neque divinitas aut bonitas neque spiritus est... neque filii neque patris est denominatio... neque sermo ipsius est, neque nomen neque scientia neque tenebrae neque lux est, neque error neque veritas...19

      «Tibi silentium laus»,20 «a te il silenzio è lode», è la conclusione di un percorso che comincia dall'assenza di identità, passa attraverso molte identità possibili, e giunge all'identità con quanto è al di là di ogni identità, in questo esito offrendo l'accezione ultima di Paradiso, la più radicalmente priva di immagini e di parole.

      5. UN TERZO GIARDINO?

      La mia esposizione sarebbe finita: abbiamo evocato il giardino di Eden, il giardino di Zeus, il paradiso celeste; ovvero Adamo, Eros, gli angeli. In via del tutto ipotetica, tuttavia, vorrei avanzare qui l'ipotesi che il Discorso contenga l'evocazione di un terzo giardino.

      Bisogna qui ricordarne l' esordio:

      Ho letto, negli scritti degli arabi, padri venerandi, che Abdallah Saraceno, essendo gli stato domandato che cosa in questa sorta di scena del mondo gli apparisse più ammirevole, rispose che nulla gli appariva più ammirevole dell'uomo. Con questo si accorda il detto di Mercurio: «Grande miracolo è l'uomo».21

      Il riferimento all'Ascepio è preciso, importante per tutto il ragionamento del Discorso e facilmente controllabile.22 La citazione di «Abdallah Saraceno» rimane invece misteriosa, e nessuna delle proposte è stata soddisfacente.23

      Esiste invece, fra i moltissimi con lo stesso nome, un 'Abdallah che ha parlato della dignità dell'uomo, rispetto agli altri esseri e, come Pico, ha dato a questa dignità un fondamento teologico. Questi è 'Abdallah al-Tarjumân ovvero Anselmo Turmeda.24 Nato a Palma di Maiorca nel 1352, frate francescano, soggiorna per motivi di studio a Bologna, dove, secondo il suo racconto autobiografico, la Tuhfa,25 riceve da un pio religioso il suggerimento di accostarsi all'Islâm. Si reca a Tunisi, dove viene accolto dal sovrano Abu-l-Abbas, e si converte. Sposatosi, lavora come traduttore (donde il soprannome) alla dogana a Tunisi, ma compone anche in catalano un Libre de bons admonestaments: il libro rappresenta un punto di vista cristiano, sia pure con tratti fortemente anticlericali e si dichiara scritto «a Tunisi, da frate Anselmo Turmeda, altrimenti detto 'Abdallah». Nel 1417, dopo varie altre operette, egli compone una Disputa dell'asino, che ci è rimasta solo in una versione francese del 1544. Nel 1420 scrive in arabo una biografia apologetica, la Tuhfa, in cui difende la sua conversione. Parecchi tentativi di riportarlo in terra cristiana fallirono. 'Abdallah morì a metà degli anni venti a Tunisi, e la sua tomba si trova nel Suq dei sellai. La sua memoria fu venerata - singolarmente - sia in ambito arabo-musulmano, sia in quello cristiano catalano, e l'attenzione rispettosa alla sua figura è oggi alquanto viva, come conferma l'epigrafe rinnovata recentemente sulla sua tomba.

      La sua vicenda, tuttora e forse per sempre misteriosa nelle sue motivazioni profonde, non può essere certo qui affrontata. Ma ai nostri fini basta ricordare quel che ci serve della Disputa dell'asino. La Disputa - nella versione francese - dal suo frontespizio si presenta così:

Disputation de l'asne
contre frère Anselme Turmeda
sur la nature et la noblesse des animaulx
faicte et ordonnée par ledict frère Anselme
en la cité de Tunicz, l'an 1417

En laquelle ledict frère Anselme preuve comme les enfans de notre père Adam sont de plus grande noblesse et dignité que ne le sont tous les aultres animaulx du monde, et par plusieurs et vives preuves et raisons.
Traduite de vulgaire hespaignol en langue françoise.26

      La storia comincia in un giardino, un giardino in Tunisia. Un mattino d'estate - c'era ancora la luna - frate Anselmo, giunge ad un giardino assai bello,

Dedans lequel avoit infiny nombre
de toutes fleurs et fruits pour servir d'umbre.
Là découloit une claire fontaine
Qui doulcement murmuroit en la plaine,
Dessus laquelle le rossignol gentil
Chantoit ung chant fort plaisant et subtil.
Brief, je pensoys à contempler ceste estre
Que pour certain fust paradis terrestre
ou pour le moins le jardin sumptueux
Des Hésperides tant beau et fructueux.27

      Molti animali sono presenti nel giardino, perché si fa festa per il nuovo re, il leone rosso. Anselmo, nascosto, si addormenta, ma un coniglio denuncia la sua presenza: c'è uno che sostiene che «les filz d'Adam sont plus nobles et excellents, et de plus grande dignité que nous aultres animaulx ne sommes».28 In breve, Frate Anselmo è costretto a disputare con i diversi animali, e tutte le sue ragioni che servirebbero a dimostrare la superiorità dell'uomo vengono sconfitte (spesso vengono date risposte salaci sui costumi corrotti della cristianità, e sono questi passi che resero a suo tempo famosa l'operetta). Solo alla fine frate Anselmo può prevalere, quando adduce l'autorità della scrittura.

      Seigneur Asne, l'aultre raison pour prouver mon opinion estre vraye, c'est à sçavoyr que entre nous filz d'Adam somme de plus grande noblesse et dignité que vous aultres, si est que Dieu tout puissant a voulu prendre chair humaine, mettant sa haulte divinité avec nostre humanité, et n'a pas prinse vostre chair ne vostre semblance, mains en long temps s'est fait nostre frère, et s'est faict filz d'Adam, ainsi comme nous aultres de la part de la mère, tellement que nostre chair est aujourdhuy colloquée là hault, au ciel impérial. Et de ce, disoit sainct Jehan au premier chapitre de son Evangile: «La parolle a esté faicte chair et a habité entre nous». Er sur cela, disoit sainct Augustin: «La parolle du Seigneur est le filz du Père», c'est à sçavoyr Jésus Christ, qui es le filz du Père éternellement, et filz de la mère temporellement. Et ceste nostre dignité surmonte toute aultre dignité et honneur. Parquoy c'est saincte et juste raison que nous soyons vos seigneur et vous nos vassaux et subjectz. Et pour ce disoit ce grand prophète le roy David: «Tu, as, Seigneur, subjugué toutes choses soubz ses pieds, c'est à sçavoyr toutes aultres bestes et animaulx, les oyseaulz du ciel et les poissons de la mer; disant davantage ledict royal prophète en son 8e Pseaulme: "Seigneur, tu l'as constitué un peu moindre que les anges, tu l'as couronné de gloire et honneur, et tu l'as constitué sur les �uvres des tes mains"».29

      Una prima obiezione riguarda il fatto che la Disputa è firmata da Anselmo Turmeda, non da 'Abdallah. La risposta è che l'identità duplice di Turmeda-'Abdallah era nota e famosa da tempo, perché gli Admonestaments erano stati firmati «a Tunisi, da frate Anselmo Turmeda, altrimenti detto 'Abdallah», e solo in quanto di 'Abdallah la citazione poteva essere utile a Pico.

      In secondo luogo, Pico afferma di aver letto nei «monumenta» che 'Abdallah saraceno, interrogato, rispose ecc. Si può così rispondere. È improbabile in realtà che Pico potesse leggere direttamente testi originali arabi, come risulta anche dall'epistolario.30 La Disputa dell'asino non esiste tra i suoi libri, ma la notizia della disputa di 'Abdallah-Turmeda, conosciuta da lui direttamente oppure riferitagli dai suoi informatori, gli conveniva, perché gli offriva un'autorità da affiancare a quella di Asclepio per cominciare il Discorso; un'autorità proveniente dal mondo islamico, il massimo antagonista, da trattare perciò con rispetto in una Disputa che ha per scopo la pace.31

      Una terza obiezione riguarda la presenza di un altro 'Abdallah nelle Tesi di Pico. Tra le Conclusiones secundum Adelandum arabem, numero VIII, ce n'è infatti anche una che riguarda un 'Abdallah e le sue teorie sui sogni,32 affermazione che non per ora si rintraccia nell'opera di 'Abdallah-Turmeda. Cui si può rispondere ricordando che 'Abdallah è nome comunissimo, e che dunque può trattarsi di un altro, ancora da identificare, come lo stesso «Adelando».

      Una quarta obiezione riguarda il carattere popolare, non umanistico, della Disputa. Cui si può rispondere menzionando quel che sinora non ho detto, e cioè che essa dipende per gran parte da un testo arabo eterodosso del X secolo, IV dell'ègira: un apologo contenuto nel ventunesimo trattato dei cinquantuno che compongono l'enciclopedia dei «Fratelli della purezza», gli Ikhwân as-safa', come mostrava Asín Palacios nel 1914.33 La struttura e il contenuto dell'apologo è straordinariamente simile a quello della Disputa, ivi compresa la conclusione, in cui la superiorità dell'uomo è fondata su motivi teologici e mistici. Ciò che serviva al dotto Miguel Asín Palacios, in clima antimodernistico, per sminuire l'anticlericale anzi apostata Turmeda, torna invece a vantaggio se si vuole mostrare la genealogia alta, teologica, della Disputa. La cui originalità, rispetto all'antico modello arabo, rimane affidata non solo alle ampie sezioni narrative, ma anche alla sua specifica conclusione teologica, legata al tema dell'incarnazione.

      A favore di questa proposta sta il fatto, così rilevante da prevalere su ogni esitazione ad enunciarla, che c'è qui un 'Abdallah che scrive sulla dignità dell'uomo con argomenti teologici.

      Che il «manifesto dell'Umanesimo» possa cominciare con un riferimento cifrato ad 'Abdallah-Turmeda rimane un'emozionante congettura. Essa tuttavia già da sola è capace di suscitare molte riflessioni, confermando almeno in ciò la giustezza del detto del geniale erudito James Rendel Harris, scopritore scopritore fra l'altro delle Odi di Salomone, secondo cui «a good conjecture is better than evidence».


1 Traduco dall'edizione curata da G. Tognon, Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell'uomo, Editrice La Scuola, Brescia 1987. Questa edizione, con altri scritti, è apparsa anche in traduzione francese, in un'utile edizione: Jean Pic de la Mirandole, Oeuvres philosophiques, a cura di O. Boulnois e G. Tognon, PUF, Paris 1993.

2 Aubier Montaigne, Paris 1974, tr. it. Jaka Book, Milano 1977, e 1994.

3 VCH, Acta humaniora, Wenheim 1989, cfr. anche id., De illis Pici vestigiis quae in regno theologiae... supersunt, in Vivens homo 5/2 (1994), 269-298.

4 La versione di E. Garin non coglie questo importante aspetto.

5 Cfr. Ch. Trinkaus, Marsilio Ficino and the Ideal of Human Autonomy, in Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, L. Olschki, Firenze 1986.

6 Cfr. Il concetto dell'uomo nel Rinascimento (1916) in Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1991, 66

7 «... et si nulla creaturarum sorte contentus in unitatis centrum suae se receperit, unus cum Deo spiritus factus, in solitaria Patris caligine qui est super omnia constitutus omnibus antestabit».

8 Seneca: «Si videris... non subibit te veneratio eius? » e cfr. Pico: «Si quel videris... Si recta philosophum ration omnia discernentem, hunc venereris». Vedi anche l'uso di «numen».

9 P. Kibre, The Library of Pico della Mirandola (1936), AMS Press, New York 1966, 185.

10 II parte IV, 29; Conclusiones nongentae. La novecento tesi dell'anno 1486, a cura di A. Biondi, L. Olschki, Firenze 1995, 93. Cfr. E. Wind, Porus Consilii filius, in L'opera e i pensiero di Giovanni Pico della Mirandola, II, Firenze 1965, 197 ss.

11 De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942, 501-504.

12 II parte V, 21; Conclusiones ed. cit., 96 s.

13 Cfr. Enn. III, 2, 9: l'uomo «non è il migliore degli esseri viventi, ma occupa quel posto medio che ha scelto...» (tr. G. Faggin). Nella parafrasi di Marsilio: «Ait genus humanum non summum animalium esse, sed medium inter bruta deosque, id est daemones», In Plotinum, Opera omnia, II, 2, Basilea 1576, 1691. Plotino ha anche una esegesi del «Giardino di Zeus», che pare presente nel luogo sopra citato delle Conclusiones II parte V, 21; ed. Biondi, 96 s.

14 Cfr. G. Lettieri, In spirito e/o verità. Da Origene e Tommaso d'Aquino, e dello stesso «In spirito e verità»: Nicola da Cusa e l'ambiguità della rivelazione, nel volume In spirito e verità, a cura dello scrivente, imminente presso le Edizioni dehoniane.

15 È questa anche la giustificazione più immediata del Discorso, la giustificazione di Pico l'impresa ardita delle 900 tesi, ma non è la sostanza ultima del Discorso, come altri affermano, per esempio Kristeller.

16 «Venite a me, voi che siete affaticati, venite e vi ristorerò; venite a me e vi darò la pace che il mondo e la natura non possono dare» (Mt 11, 18 e Gv 14, 27).

17 «O summam Dei patris liberalitatem, summam et admirandam hominis foelicitatem! Cui datum id habere quod optat, id esse quod velit. Bruta simul atque nascuntur id secum afferunt (ut ait Lucilius) e bulga matris quod possessura sunt. Supremi spiritus aut ab initio aut paulo post mox id fuerunt, quod sunt futuri in perpetuas aeternitates. Nascenti homini omnifaria semina et omnigenae vitae germina indidit Pater. Quae quisque excoluerit illa adolescent, et fructus suos ferent in illo. Si vegetalia planta fiet, si sensuali obrutescet, si rationalia caeleste evadet animal, si intellectualia angelus erit et Dei filius. Et si nulla creaturarum sorte contentus in unitatis centrum suae se receperit, unus cum Deo spiritus factus, in solitaria Patris caligine qui est super omnia constitutus omnibus antestabit».

18 Cfr. di Gregorio La vita di Mosè, II, 182 con il commento di J. Daniélou (La vie de Moïse, Paris 1955, 80 ss. (Sources Chretiennes 1bis).

19 Mystica theol., 5 (PG 3, 898-1046); Corpus dionysiacum, ed. G. Heil-A. M. Ritter, II, De Gruyter, Berlin-N. York 1991, 149 s.

20 De ente et uno 5, dalla sua lettura di Ps. 64,2. cfr. De Lubac, 301.

21 «Legi, Patres colendissimi, in Arabum monumentis, interrogatum Abdalam Sarracenum, quid in hac quasi mundana scena admirandum maxime spectaretur, nihil spectari homine mirabilius respondisse. Cui sententiae illud Mercuri adstipulatur:"Magnum, o Asclepi, miraculum est homo"».

22 «Propter haec, o Asclepi, magnum miraculum est homo, animal adorandum et honorandum. Hoc enim in naturam dei transit, quasi ipse sit deus...» Corpus hermeticum, ed. A. D. Nock -A.-J. Festugière, Les belles lettres, Paris 1954, II, 301 s.

23 Vedi anche, L'apprendista stregone. Astrologia, cabala e arte lullina in Pico della Mirandola e seguaci, Marsilio, Venzia 1995, 29. Tognon avanza l'ipotesi che si tratta di 'Abdallah Ibn al-Muqaffa', senza riferimenti più precisi, e avvertendo che si tratta di un nome frequente e difficile a situare).

24 Sulla presenza di questo 'Abdallah ha richiamato la mia attenzione l'amico Muhammd Kerrou, a Tunisi, nel novembre 1995.

25 Studiata a fondo da M. de Epalza, Fray Anselm Turmeda ('Abdallâh al-Taryumân) i su polémica islamo-christiana. Edición, traducción y estudio de la Tuhfa, Hiperion, Madrid 19942.

26 Dispute de l'âne. Texte établi, annoté et commenté par A. Llinares, Vrin, Paris 1984, 39. Una retroversione in catalano: Disputa de l'ase, versió per E. N. C., Els nostres clàssics, Barcelona 1028.

27 Dispute, 45.

28 Ivi, 50.

29 Ivi, 138

30 «Et ne credas nostrae industriae et laboris quicquam remissum scito me post multam assiduis indefessisque lucubrationibus navatam operam hebraicam linguam chaldaicamque didicisse et ad arabicae evincendas difficultates nunc quoque manus applicuisse: haec ego principis viri et existimavi semper et nunc existimo»: lettera a A. Corneo del 15 ottobre 1486, dunque esattamente coeva al Discorso. Leggo il testo dall'edizione bolognese del 1496.

31 Si veda come poco più avanti adduca Muhammad che diceva: «... qui a lege divina recesserit, brutum evadere»; si tratta probabilmente del Corano, sura 95, 4 s.: «In verità creammo l'uomo in armonia di forme, lo riducemmo poi il più abbietto tra gli abbietti»

32 «Quia, sicut dicit Abadala, videre somnia est fortitudo imaginationis, intelligere ea est fortitudo intellectus, ideo qui videt ea ut plurimum non intelligit ea», Conclusiones, ed. Biondi cit., 38 s.

33 El original árabe de la "Dísputa del asno contra fr. Anselmo Turmeda", in Revista de filología española I (1914), 1-51.


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