1 Prosegue l’autodifesa di Pico e continua il parallelismo col testo dell’Apologia, che si interrompe al § 46: 291.

2 Cicero, De finibus bonorum et malorum, I. i. 2 (p. 4, 1-7 Reynolds) : Qui autem, si hoc placeat, moderatius tamen id volunt fieri, difficilem quandam temperantiam postulant in eo quod semel admissum coerceri reprimique non potest, ut propemodum iustioribus utamur illis qui omnino avocent a philosophia quam his qui rebus infinitis modum constituant in reque eo meliore quo maior sit mediocritatem desiderent. Il riferimento è indicato, senza la citazione diretta del testo, dalla maggior parte dei commentori (cfr. BT = Jean Pic de la Mirandole, Œuvres philosophiques, texte latin, traduction et notes par Olivier Boulnois e Giuseppe Tognon, Paris, Presses Universitaires de France, 1993;  G = Giovanni Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di Eugenio Garin, Firenze, Vallecchi, 1942; K = Petrarca, Valla, Ficino, Pomponazzi, Vives: The Renaissance Philosophy of Man, ed. by Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller [and] John Hermann Randall Jr., Chicago, The University of Chicago Press, 1948; Giovanni Pico della Mirandola,  M = On the Dignity of Man, On Being and the One, Heptaplus, with an introd. by Paul J. W. Miller, Indianapolis, Bobbs-Merril, 1965; T = Id., Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di Giuseppe Tognon, Brescia, La Scuola, 1987). Nel seguito, la presenza del riferimento nelle diverse edizioni o commenti qui citati è segnalata con la sigla corrispondente. L’anonimo commentatore della recente edizione apparsa nella collana ‘Biblioteca dell’utopia’ (An = Giovanni Pico della Mirandola, De hominis digitate: La dignità dell’uomo, Milano, Berlusconi, 1994) aggiunge (e come qui, in più luoghi) il riferimento al catalogo dei libri posseduti da Pico: cfr. Kibre: 1217 (Kibre = Pearl Kibre, The Library of Pico della Mirandola, New York, Columbia University Press, 1936). Secondo il Reich (R = Giovanni Pico della Mirandola, De dignitate hominis, [hrsg. Hans H. Reich], Bad Homburg v. d. H., Gehlen, 1968) e il Buch (B = Giovanni Pico della Mirandola, De hominis dignitate: Über die Würde des Menschen, hrsg. v. August Buck, Hamburg, Meiner, 1990), che nell’apparato lo segue pedissequamente, non si troverebbe «nessun passo esattamente corrispondente». Tuttavia aggiunge: «cfr. però nostris exercitibus quid pollicemur? Multo meliora atque maiora (Phil 8, 10 [Cicero, Philippica VIII, iii. 10 (p. 99 Wuilleumier)] ) e gubernator multo maiora et meliora faciat (C 17 [ma la citazione non è esatta: cfr. Cicero, Cato maior de senectute, VI. 17 (p. 62 Powell): non facit ea [scil. senectus: p. 80, nota 5 Moore] quae iuvenes; at vero multo maiora et meliora facit] )».

3 Propertius, Elegiae, II. 10. 5-6 (p. 71 Fedeli): si deficiant uires, audacia certe / laus erit: in magnis et uoluisse sat est; (An, B, BT; C = Giovanni Pico della Mirandola, De hominis digitate, a cura di Bruno Cicognani, Firenze, Le Monnier, 1941; G, K, M; P = Giovanni Pico della Mirandola, La dignità dell’uomo, a cura di Fabio Sante Pignagnoli, Bologna, Patron, [1969] ; R, S = G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Lettera a Ermolao Barbaro, seguito da La filosofia di Pico della Mirandola di Giovanni Semprini, Roma, Atanor, 1986; T ) cfr. Kibre: 236, 324, 795. (An)

4 Gorgia: «uno dei maggiori rappresentanti della prima sofistica», vissuto tra il 485 ca. e il 380 ca. a.C. (Giulio Federico Pagallo, s.v., in EF = Enciclopedia filosofica, 4, voll., Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1957, II, p. 864). Cfr. 82 A 1a Diels-Kranz, da Philostratus, Vitae sophistarum, 1. 9, 1 sqq. (An).

5 Al mos disputandi, l’usanza di discutere, Pico fa diretto riferimento in § 27: 168, dove comincia la sua replica a quanti lo criticano per questa ragione. Per il riferimento a Gorgia, principe della disputa, cfr. Cicero, De oratore, III. 32. 129 (p. 478 Wilkins): sed hic (scil. Leontinus Gorgias) in illo ipso Platonis libro (scil. Gorgias) de omi re, quaecumque in disceptationem questionemque vocetur, se copiosissime dicturum esse profitetur; isque princeps ex omnibus ausus est in conventu poscere qua de re quisque vellet audire; ed inoltre, Brutus, 12. 46-47 (pp. 13.19 - 14.4 Malcovati): ait Aristoteles [...] quod idem fecisseGorgiam, cum singularum rerum laudes vituperationesque conscripsisset, quod iudicaret hoc oratori esset maxume proprium, rem augere posse laudando vituperandoque rursus adfligere; cfr. Kibre: 55, 507 e 331. Per Aristotele, cfr. la Technôn sunagôgê, fr. 137 Rose, «la quale, ad integrazione della sua Retorica, conteneva nella presentazione dei singoli sistemi (technai) una storia dell’eloquenza» (Otto Jahn e Wilhelm Kroll, in Cicero, Brutus, 6. ed., Berlin, Weidemann, 1962, p. 28, nota 46); cfr., inoltre, Sophistici elenchi, 34. 183 b 36 - 184 a 1: kai gar tôn peri tous eristikous logous mistharnountôn homoia tis ên hê paideusis têi Gorgiou pragmateiai: logous gar hoi men hrêtorikous hoi de erôtêtikous edidosan ekmanthanein, eis hous pleistakis empiptein ôiêthêsan hekateroi tous allêlôn logous («In effetti, l’insegnamento impartito dai professionisti delle discussioni eristiche era simile alla pratica di Gorgia: infatti alcuni facevano imparare a memoria degli argomenti retorici, altri degli argomenti in forma di domanda e di risposta, dove da entrambe le parti si pensava che dovessero ricadere con maggior frequenza le argomentazioni degli altri»).

6 Cfr. infra § 31: 198.

7 Cfr. infra § 31: 198.

8 Horatius, Epistulae, I. 1. 14 (p. 251 Shackleton Bailey): nullius addictus iurare in verba magistri; (An, B, BT, K, R, S, T) cfr. Kibre: 37, 109, 357, 414, 718. (An)

9 Riprende qui, e continua fino al § 32: 203, la corrispondenza col testo del ms. Palatino 885, interrotta al § 28: 180. È evidente, rispetto al testo del Palatino, una significativa omissione. Il testo del ms. Palatino recita: «il primo proposito fu quello di non giurare sulla parola di nessuno, ma di accostarsi a tutti i maestri della filosofia, di esaminare ogni pagina, di conoscere tutte le scuole»; e aggiunge: « Mi accorsi che per questo scopo era necessaria la conoscenza non solo della lingua greca e di quella latina, ma anche della lingua ebraica e di quella caldaica, e anche di quella araba, sulla quale ho cominciato a faticare proprio ora sotto la guida di Guglielmo Mitridate espertissimo conoscitore di tutte queste lingue». Cfr. Testo latino dell’Oratio, traduzione italiana e sinossi, a cura di Saverio Marchignoli, in Pier Cesare Bori, Pluralità delle vie: Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, Milano, Feltrinelli, pp. 132 e 154: primum id fuit, in nullius verba iurare, sed se per omnes philosophiae magistros fundere, omnes scedas escutere, omnes familias agnoscere. Vidi ad hoc munus necessariam esse non graece modo et latinae, sed hebraicae quoque atque chaldaicae et, cui nunc primum sub Mithridate Gulielmo harum linguarum interprete peritissimo insudare coepi, arabicae linguae cognitionem. Il Guglielmo Mitridate qui nominato da Pico è l’orientalista ebreo, suo collaboratore e maestro, meglio conosciuto come Flavio Mitridate: «ricercato traduttore, dovette tuttavia fuggire da Roma nel 1483 in seguito ad un misterioso delitto. Colui che era stato ‘Flavius Willelmus Ramundus Monchates artium magister Siculus ex domo Io. Bapt. Melfitensi’ diverrà in seguito ‘Willelmus Ramundus Mithridates artium et sacrae theologiae professor, apostolicae sedis acolitus et linguae hebraicae, arabicae, chaldaicae, graece et latine interpres.’ Questo è il titolo che egli stesso si attribuisce nella pubblicazione dei Dicta septem sapientium, datata a Colonia, il 24 marzo 1485» (François Secret, ‘Nouvelles précisions sur Flavius Mithridates maître de Pic de la Mirandole et traducteur de commentaires de Kabbale,’ in L’opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell’umanesimo, 2 voll., Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 1965, II, p. 170). Secondo il Farmer (F = S. A. Farmer, Syncretism in the West: Pico’s 900 Theses (1486). The evolution of traditional religious and philosophical systems, with text, translation, and commentary, Tempe, Arizona State University, 1998, Medieval and Renaissance Texts and Studies, 167), la soppressione di questo «passo elogiativo di Flavio Mitridate» costituisce un esempio «sospetto» (p. 171,  nota 108) dell’accorto «lavoro d’accetta redazionale» operato da Gian Francesco sul testo dell’edizione bolognese del 1496 (p. 172). Sulla lingua caldaica, cfr. infra, § 33: 212

10 La proposizione è omessa nel ms. Palatino. Olivier Boulnois commenta: «Pico non rifiuta il principio medievale della disputa, al contrario, lo estende alla totalità del pensabile» (Humanisme et dignité de l’homme selon Pic de la Mirandole, in BT, p. 328); perché «se il Discorso ha per oggetto la dignità dell’uomo, ha lo scopo di permettere l’integrazione di tutte le cose in seno alla pace dell’assoluto. [...] Perciò il fine perseguito non è quello di costituire un inventario, ma di restaurare una pace teologica e filosofica, fondamento di tutte le altre paci, morali e politiche» (ibid., pp. 326-27).

11 Horatius, Epistulae, I. 1. 15 (p. 251 Shackleton Bailey): quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes; (An, B, BT, C, G, M, P, R, T) cfr. Kibre: 37, 109, 357, 414, 718. (An) La proposizione è omessa nel ms. Palatino.

12 De vita Aristotelis, p. 428 Rose: houtô philoponôs sunên Platôni hôs tên oikian autou anagnôstou oikian prosagoreuthênai. (An, C)

13 La «Stoà», ossia  «il portico Pecile (stoa poikilê) di Atene, dove ebbe sede alle origini, intorno al 300 a.C., la scuola stoica. Questa si suole designare infatti anche come ‘filosofia della Stoà,’ o, più semplicemente ‘la Stoà’» (s.v., in EF2 = Enciclopedia filosofica, 2. ed., 6 voll., Firenze, Sansoni, 1967, p.184).

14 «L’Accademia (Akadêmia), detta così perché aveva la propria sede vicino ai giardini dedicati al leggendario eroe Accademo, era la stessa scuola di Platone» (Giovanni di Napoli, s.v., EF, I, p. 25).

15 Il ms. Palatino aggiunge: «In passato non c’è mai stato, né ci sarà mai dopo di noi nessuno a cui sia dato di comprendere tutta la verità. La sua immensità va oltre la capacità umana di esserle pari». Cfr. Testo latino e sinossi, cit., pp. 134 e 155-56: Nemo aut fuit olim aut post nos erit cui se totam dederit veritas comprehendendam. Maior illius immensitas quam ut par sit ei humana capacitas.

16 L’andamento del testo comincia a seguire, a partire da questo punto, l’ordine di esposizione delle Novecento tesi, che possono essere ripartite in «due sezioni principali e in numerose sezioni minori». La prima sezione principale può essere definita «quasi-storica» ed è suddivisa in diverse sezioni minori che presentano «in ordine storico inverso» le «opinioni delle gentes e dei loro heresiarchae»; così, «gli scolastici latini [cfr. § 31: 198] sono seguiti dagli Arabi [cfr. § 31: 199], gli Arabi dai Greci [cfr. § 31: 200-202], i Greci dai Caldei [cfr. § 33: 212], i Caldei dagli Egizi [cfr. § 33: 212], e gli Egizi dai ‘sapienti cabalisti ebrei’ [cfr. § 33: 212]»; la seconda sezione principale contiene, a sua volta, tesi «presentate secondo l’opinione propria di Pico (secundum opinionem propriam) [cfr. § 32: 209; § 33: 212 e sezioni successive]» (F, p. 8). Come nota il Pignagnoli, «per “nostri” Pico intende gli Scolastici» (P, p. 119, nota 105). Cfr. Conclusiones secundum doctrinam latinorum philosophorum et theologorum Alberti Magni, Thomae Aquinatis, Henrici Gandavensis, Iohannis Scoti, Egidii Romani, et Francisci de Maironis (1.1 - 6.11, pp. 212-49 Farmer). Gli autori “latini” citati da Pico, «sono tutti abbondantemente presenti nella sua biblioteca» (An, p. 76, nota 87).

17 Cfr. Conclusiones secundum Iohanem Scotum numero .xxii. (4.1-22, pp. 236-41 Farmer). Giovanni Duns Scoto (ca. 1266-1308) è considerato «uno dei più importanti pensatori dell’intero periodo scolastico». Giudicato «scrittore notoriamente difficile e molto originale, Scoto fu chiamato Doctor subtilis per il suo modo di argomentare molto tecnico ed estremamente puntuale. Su molte questioni di grande importanza, Scoto sviluppò la sua posizione opponendosi criticamente ad Enrico di Gand, il pensatore di maggior rilievo della generazione immediatamente precedente e uno dei più severi critici agostiniani di Tommaso d’Aquino» (Stephen D. Dumont, s.v., REP, III, pp. 153-54).

18 Cfr. Conclusiones secundum Thomam numero .xxxxv. (2.1-45, pp. 218-31 Farmer). Tommaso d’Aquino (ca. 1224-1274), fu uno dei massimi teologi e filosofi della scolastica . «Le sue opere sono il risultato della sua attività di insegnamento nell’ordine domenicano e alla facoltà di teologia dell’università di Parigi» (Norman Kretzmann [and] Eleonore Stump, s.v., in REP = Routledge Encyclopedia of Philosophy, 10 vols., London and New York, Routledge, 1998, I, p. 326). «Nelle sue linee principali, la filosofia di Tommaso consiste in un ripensamento dell’aristotelismo, con influenze significative» derivanti da altre fonti. «Questo potrebbe far pensare che ci troviamno di fronte ad un pensatore eclettico, ma in realtà Tommaso rielaborò le dottrine teoretiche e pratiche dei suoi predecessori in un sistema coerente, che reca l’impronta della sua genialità e della sua posizione religiosa» (Vernon J. Bourke, s.v., in EP = Encyclopedia of Philosophy, 8 vols., New-York and London, Macmillan, 1967, VIII, p. 105).

19 Cfr. Conclusiones secundum Egidium Romanum numero .xi. (4.1-11, pp. 246-49 Farmer). Egidio Romano (ca. 1234-1316), filosofo e teologo dell’ordine dei frati eremitani di Sant’Agostino, «scrittore fecondissimo e polemista nato, prese parte a tutte le lotte dottrinali e politiche del suo tempo». Egidio «fu un caposcuola»; infatti «non si può dire che egli sia un tomista», anche se  «è certo che appartiene alla corrente dell’aristotelismo moderato, di cui condivide i fondamentali teoremi metafisici e in generale i termini del rapporto, introdotto da san Tommaso, tra ragione e fede» (Gerardo Bruni, s.v., EF2, II, p. 751).

20 Cfr. Conclusiones secundum Franciscum numero .viii. (3.1-8, pp. 232-35 Farmer). Francesco di Meyronnes (ca. 1288-1328) «filosofo e teologo francescano, tra i più fedeli e importanti discepoli di Scoto» è «con Enrico di Gand ed Egidio Romano, tra i principali maestri della sua epoca» (Alfonso Pompei, s.v., EF2, II, p. 1503).

21 Cfr. Conclusiones secundum Albertum numero .xvi. (1.1-16, pp. 212-17 Farmer). Alberto Magno (ca. 1200-1280) fu teologo e filosofo domenicano. «Benché ai suoi tempi fosse giudicato il più eminente scolastico del Medioevo, oggi è meglio conosciuto come il maestro di san Tommaso d’Aquino. La sua importanza risiede principalmente nell’aver reso il pensiero di Aristotele ‘intelligibile ai latini’ attraverso la parafrasi sistematica dell’intero corpus e nell’aver aperto nuove aree di studio alla ricerca scientifica» (James A. Weisheipl, s.v., in Dictionary of the Middle Ages, 13 vols., New York, Scribner, 1982-89, I, p. 127). Alberto, inoltre, «attribuisce particolare rilievo e importanza alla mistica speculativa di fonte neoplatonica» (Paul Simon, s.v., EF2, I, p. 156).

22 Cfr. Conclusiones secundum Henricum Gandavensem numero .xiii. (5.1-13, pp. 242-45 Farmer). Enrico di Gand (ca. 1217-1293), filosofo e teologo all’università di Parigi, «importante esponente delle correnti neo-agostiniane alla fine del secolo XIII» è «con Sigieri di Brabante e Goffredo di Fontaines uno dei pensatori belgi più notevoli del secolo» (Raymond Macken, s.v., in Lexikon für Theologie und Kirke, 10 Bände, Freiburg i.B., Herder, 1993-2001, IV, p. 1386).

23 Cfr. Conclusiones secundum doctrinam Arabum qui ut plurimum peripateticos se profitentur: Avenroem, Avicennam, Alpharabium, Avempacem, Isaac, Abumaron, Moysem, et Maumeth (7.1 - 14.2, pp. 250-81 Farmer). Anche gli autori arabi citati sono «tutti nella biblioteca di Pico» (An, p. 76, nota 88).

24 Cfr. Conclusiones secundum Avenroem numero .xli. (7.1-41, pp. 250-63 Farmer). Ibn Rushd (1126-1198), «il ‘commentaore di Aristotele,’ celebre nel mondo latino sotto il nome di Averroè, [fu] studioso versato nelle scienze coraniche, nelle scienze positive (fisica, medicina e biologia, astronomia), teologo e filosofo» (R. Arnaldez, s.v., in EI = Enciclopédie de l’Islam, Leiden, Brill, 1954-, III, p. 1005); è considerato «la figura più eminente nel periodo di maggior sviluppo della filosofia islamica (700-1200)», per «la sua enorme influnza in certe fasi del pensiero latino dal 1200 al 1650» (Stuart Mac Clintock, s.v., EP, I, p. 220).

25 Cfr. Conclusiones secundum Avempacem numero .ii. (14.1-2, pp. 280-81 Farmer). Ibn Badjdja (fine del sec. XI-1139), «l’ Avempace del Medievo occidentale», fu «celebre filosofo e wazir di Spagna nel secolo XII e secondo Ibn Khaldun, che lo pone al rango di Ibn Rushd (Averroè) nell’occidente islamico, di al-Farabi e di Ibn Sina (Avicenna) nell’oriente islamico, uno dei più grandi filosofi dell’Islam». Ibn Badjdja fu «famoso anche come poeta» ( D. M. Dunlop, s.v., EI, III, p. 750). «Si sa che scrisse diversi commentari sui trattati di Aristotele e che fu molto versato in medicina, matematica ed astronomia». Tuttavia «le opere filosofiche di Ibn Badjdja sono rimaste incomplete; così, in particolare, il trattato che lo rese famoso, il Tadbir al-motawahhid (Il regime del solitario). Per un considerevole lasso di tempo questo trattato fu conosciuto solo attraverso una sua analisi dettagliata in ebraico ad opera di Mosé di Narbona (sec. XIV) nel suo commento allo Hayy ibn Yaqzan di Ibn Tufayl» (Henri Corbin, s.v., EP, IV, p. 105). A proposito di Abu Bakr Muhammad Ibn Tufayl (inizio sec. XII-1185), l’Abubacer dei latini, «non è esatto dire, come qualcuno ha fatto, che fu l’allievo di Ibn Badjdja, perché lui stesso afferma, nell’introduzione del suo romanzo filosofico, che non conobbe affatto, personalmente, questo filosofo» (B. Carra de Vaux, s.v., EI, III, p. 981). È però indubbio che lo scritto di «mistica filosofica» di Ibn Badjdja, Sul regime del solitario, «ebbe grande influenza sul celebre romanzo filosofico di Ibn Tufayl, Risalat Hayy ibn Yaqzan (La storia di Hayyi ibn Yaqzan), di grande importanza sull’atteggiamento mentale di Pico». La versione ebraica di questo romanzo, commentata da Mosé di Narbona, fu «tradotta in latino dallo stesso Pico per suo uso personale, sotto l’influsso di Jochanan Alemanno (cfr. U. Cassuto, Gli ebrei a Firenze nell’età del Rinascimento, Firenze, 1918, p.322)» (C, p. 114, nota 51). Secondo Chaim Wirzubski, «Johanan Alemanno è la persona che ha maggiore importanza, accanto a Flavio Mitridate, per lo studio dell’incontro di Pico con la Kabbala» (Pico della Mirandola’s Encounter with Jewish Mysticism, Jerusalem, The Israel Academy of Sciences and Humanities, 1989, p. 256). Alemanno era dotato di «una vasta erudizione nell’ambito della letteratura rabbinica e cabalistica» e «si dedicò alla redazione di molte opere in ebraico, fra le quali vanno segnalati un commento filosofico al Cantico dei cantici, Gli occhi della comunità – un commento al Pentateuco – e L’immortale (Hay ha’Olamin), uno scritto enciclopedico noto nel Rinascimento, ma che oggi sopravvive in un solo manoscritto; in esso Alemanno spega come l’uomo attraverso i gradi della conoscenza possa pervenire alla beatitudine suprema» (Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Pico della Mirandola, Casale Monferrato, Piemme, 1999, p. 169).

26 Cfr. Conclusiones secundum Alpharabium numero .xi. (7.1-11, pp. 268-71 Farmer). al-Farabi (870-950), «che i testi latini medievali chiamano Alfarabius o Avennasar, è uno dei più eminenti e dei più celebri filosofi mussulmani; fu soprannominato ‘il secondo maestro,’ essendo Aristotele il primo» (Richard Walzer, s.v., EI, 797, II, p. 797); «unitamente ad Avicenna, che gli deve molto [...], fu il pensatore arabo che più influenzo la filosofia islamica e araba medievale» (Id., s.v., EF, II, p. 269).

27 Cfr. Conclusiones secundum Avicennam numero .xii. (9.1-12, pp. 264-67 Farmer). Ibn-Sina (980-1037), conosciuto in Occidente sotto il nome di Avicenna, «fu il filosofo più celebre e più influente dell’Islam medievale. Elaborò un vasto sistema filosofico che deve molto ad Aristotele, ma che non si può definire strettamente aristotelico. Infatti la sua gnoseologia e la sua metafisica fanno proprie alcune dottrine neoplatoniche, che egli riformulò in modo originale. Inoltre sono presenti anche altre influenze di origine greca: Platone nel suo pensiero politico; Galeno nella sua psicologia; gli Stoici nella sua logica» (Michael E. Marmura, s.v., EP, I, pp. 226-27) Avicenna, «facendo propria la concezione enciclopedica delle scienze che era divenuta tradizionale fin dai sapienti della Grecia, univa la filosofia allo studio della natura e mirava al raggiungimento della perfezione umana sia nella scienza che nell’agire pratico. Fu quindi un medico altrettanto illustre, quanto un illustre filosofo» (A.-M. Goichon, s.v., EI, III, p. 965)

28 Cfr. Conclusiones secundum graecos qui peripateticam sectam profitentur: Theophrastum, Ammonium, Simpliium, Alexandrum et Themistium (15.1 - 19.5, pp. 282-95 Farmer).

29 Simplicio (ca. 490-560) «filosofo neoplatonico e commentatore di Aristotele, studiò ad Alessandria sotto Ammonio e ad Atene sotto Damascio. La scuola di Atene fu chiusa nel 529 e Simplicio si ritirò in Persia. Al suo ritorno, essendo pagano, gli fu impedito di insegnare». Lo testimoniano «i commenti che ci ha lasciato, troppo eruditi e troppo polemici per essere adatti ad un pubblico di studenti» (Anthony C. Lloyd, s.v., EP, VII, p. 448). Simplicio può così essere considerato «l’autore dei più eruditi commenti di Aristotele prodotti in età antica», dove «fornisce spiegazioni e riferimenti illuminanti, che [...] permettono di ricostruire la storia delle interpretazioni e delle critiche delle dottrine di Aristotele nell’antichità» (Christian Wildberg, s.v., REP, VIII, p. 788). La filosofia di Simplicio è «rappresentativa del neoplatonismo greco nella fase finale e più sofisticata del suo sviluppo» (Ilsetraut Hadot, s.v., in ECP = Encyclopedia of Classical Philosophy, ed. by Donald J. Zeyl, Westport CT, Greenwood Press, 1997, p. 490). Nelle biblioteca di Pico sono presenti i suoi commenti alle Categorie (Kibre: 439, 452, 1616), al De anima (Kibre: 447), al De caelo (Kibre: 455, 463, 715, 1020, 1595) e alla Fisica di Aristotele (Kibre: 439, 446, 455, 457, 464, 499, 514, 745). Nel catalogo sono presenti due copie di un presunto commento di Simplicio In secundum et tertium ethicorum (Kibre: 446, 451), ma a quanto consta egli fu autore di un solo commento di argomento etico, quello sul Manuale di Epitteto (cfr. Ilsetraut Hadot, La vie et l’oevre de Simplicius d’après des sources grecques et arabes, in Simplicius: Sa vie, son œvre, sa survie, Berlin, de Gruyter, 1987, p. 39).   

30 Temistio (ca. 317-388), «uomo di stato, oratore e commentatore peripatetico di Aristotele» fu «contemporaneo di Giamblico, ma si colloca al di fuori della prevalente tradizione neoplatonica» (H. J. Blumenthal, s.v., ECP, p. 549). Temistio, «come filosofo pagano e come consigliere di imperatori romani cristiani, cercò di rendere le celebrate opere dei suoi ispiratori, Aristotele e Platone, più accessibili attraverso parafrasi esplicative. Apostolo della cultura ellenistica per i contemporanei, fu molto conosciuto nel Medioevo come un importante espositore di Aristotele» (John Bussanich, s.v., REP, IX, p. 324). Temistio è presente nella biblioteca di Pico (Kibre: 575), anche nella traduzione di Ermolao Barbaro (Kibre: 774, 1287).

31 Alessandro di Afrodisia (fine del sec. II-inizio del sec. III) fu «maestro di filosofia aristotelica in Atene fra il 198 e il 211» ed «è noto come il più grande commentatore di Aristotele dell’antichità» (Enrico Berti, s.v., EF2, I, p. 171). «Per tutta l’antichità e il Medioevo fu considerato il commentatore esemplare (spesso è citato semplicemente come il ‘commentatore’), perciò molte delle sue opere ora perdute sono incorporate in quelle dei suoi successori. [...] In generale, muove dal presupposto che la filosofia aristotelica costituisca un’unità organica, ma dove non c’è un unico e chiaro punto di vista aristotelico lascia la questione aperta, citando diverse possibilità» (Dorothea Frede, s.v., ECP, pp. 20-21). Numerose, tra i libri di Pico, sono le opere di Alessandro (Kibre: 29, 510, 511, 617, 730, 1588, 1592, 1597).

32 Teofrasto (372/1 o 371/0-288/7 o 287/6 a.C.), «filosofo e scienziato, fu forse scolaro di Platone, ma ben presto seguì Aristotele, di cui fu il successore nella direzione della scuola peripatetica dal 322/1 [...]. Per vastità di interessi, esigenze sistematiche e impegno speculativo, fu, con Stratone di Lampsaco, il più illustre rappresentante dell’orientamento scientifico ed erudito sempre più assunto dal Peripato dopo la morte di Aristotele» ( Giuseppe Faggin e Giancarlo Movia, s.v., EF2, VI, pp. 396-97). Presente nella biblioteca di Pico (Kibre: 450, 631, 1557).

33 Le considerazioni stilistiche di Pico impediscono l’identificazione, proposta dal Miller, con «Ammonio Sacca, 175-252, neoplatonico alessandrino, maestro di Origene e di Plotino» (M, p. 23, nota 20), che «come Socrate, [...] non ha lasciato alcuno scritto» (Jean Pepin, Neopitagorismo e neoplatonismo, in Storia della filosofia, diretta da Mario Dal Pra, Milano, Vallardi, 1975-1978, vol. IV, p. 314); certamente, quindi, «non si tratta né di Ammonio Sacca, né di Ammonio maestro di Plutarco, ma di Ammonio figlio di Ermía, scolaro di Proclo» (P, p. 121, nota 117). Ammonio di Ermía (ca. 440-dopo il 517) fu capo della scuola neoplatonica di Alessandria; «maestro di Asclepio, Damascio, Filopono e Simplicio fu responsabile del concentrarsi degli alessandrini sull’esposizione di Aristotele. Di solito si dice che ciò sia dovuto all’accordo, raggiunto con le autorità cristiane, di non insegnare Platone. [...] Poiché le sue opere sono costituite da commenti sulla logica di Aristotele, spesso è difficile stabilire quali altre opinioni filosofiche egli avesse» (H. J. Blumenthal, s.v., ECP, pp. 25-26).

34 Cfr. Conclusiones secundum doctrinamphilosophorum qui Platonici dicuntur: Plotini Aegiptii, Porphyrii Tyrii, Iamblichi Chalcidei, Procli Lycii, et Adelandi Arabis (20.1 - 24.55, pp. 296- 333 Farmer). Insieme agli altri autori neoplatonici, Plotino, Porfirio e Giamblico, anche «Proclo era ben rappresentato nella biblioteca di Pico» (An, p. 77, nota 90).

35 Porfirio (234-ca. 305), «filosofo neoplatonico, studiò ad Atene sotto la guida del platonico Longino, prima di aderire nel 263 al circolo di Plotino a Roma». Fu uomo «di erudizione e di interessi eccezionalmente ampi, riguardanti la storia, la letteratura e lo studio comparato delle religioni, oltre che la filosofia; anche la sua produzione fu altrettanto varia ed estesa». Le sue Sentenze danno l’idea «che cercasse di conferire maggiore profondità analitica e precisione terminologica alle concezioni di Plotino sulla relazione tra la realtà intelligibile e il mondo sensibile, tra l’anima e il corpo, e questo vale, a quanto pare, anche per la relazione tra l’Intelletto (Nous) e l’Uno». Inoltre, «l’influenza di Porfirio, dal punto di vista storico, fu molto grande, non solo nei confronti delle scuole neoplatoniche dell’Oriente ellenistico, ma anche sugli autori latini, come Agostino e Boezio, e sui filosofi islamici, che disponevano delle traduzioni dei suoi testi» (Dominic J. O’Meara, s.v., ECP, pp. 446-48).

36 Giamblico (ca. 242-327), filosofo neoplatonico; di lui «sappiamo con certezza che fu discepolo di Porfirio e che insegnò per molti anni ad Apamea, iniziando così la scuola neoplatonica di Siria» (Giuseppe Faggin, s.v., EF, II,  p. 707). «I suoi scritti ebbero una notevole influenza sulla scuola di Atene, che sorse nel secolo successivo sotto la guida di Plutarco [di Atene]» (Glen Morrow, in Proclus, A Commentary on the First Book of Euclid’s Elements, Princeton, Princeton Univ. Press, 1970, p. 19, nota 42); sicché si può dire che egli «fu, con Plotino e Porfirio, uno dei fondatori del neoplatonismo. Stabilì un nuovo curriculum per lo studio della filosofia e introdusse molte distinzioni concettuali divenute correnti nella metafisica tardo-neoplatonica. Iniziò la matematizzazione di tutte le discipline di interesse filosofico, ma soprattutto sostenne che sono atti di trascendenza, e non di contemplazione, quelli che assicurano l’unione col divino, perché lo si può raggiungere solo con una facoltà altrettanto divina presente in ogni individuo» (Lucas Siorvanes, s.v., REP, IV, p. 598). Quindi, «benché mantenesse in generale il sistema di Plotino e di Porfirio, il suo carattere e il suo ambiente lo sospinsero con minore distacco di questi pensatori verso pratiche gnostiche e magiche, che venivano giudicate capaci, al pari della filosofia neoplatonica, di condurre alla salvezza» (Anthony C. Lloyd, s.v., EP, IV, p. 105).

37 Plotino (204/5-270) è unanimemente considerato «il principale rappresentante del neoplatonismo» (G. Faggin, s.v., EF2, V, p. 87). Fu allievo ad Alessandria di Ammonio Sacca «il leggendario fondatore della scuola neoplatonica» (Peter Christian Lang, s.v., in Metzler Philosophen Lexikon, Stuttgart, Metzler, 1995, p. 692). Dopo la morte (presunta) del suo maestro, si stabilì a Roma, dove «fondò una scuola non ufficiale, in cui insegnò assistito da una cerchia di allievi molto stretti, Amelio prima (246) e Porfirio poi (263)» (Dominic J. O’Meara, s.v., ECP, p. 420).

38 Proclo (412-485), filosofo neoplatonico, considerato «l’ultimo grande filosofo greco» (Laurence J. Rosán, s.v., EP, VI, p. 479); «studiò retorica, diritto e teologia ad Alessandria e nel 430/1 fece il suo ingresso alla scuola neoplatonica di Atene, dove studiò filosofia sotto la guida di Plutarco di Atene e di Siriano, a cui successe come capo della scuola». Proclo «diede espressione sistematica al pensiero dei suoi immediati predecessori» e «la sua opera divenne dottrina corrente nelle scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria» (Dominic J. O’Meara, s.v., ECP, p. 420). In Proclo, i «molti elementi aristotelici e stoici» accolti nella sintesi neoplatonica «oltre a quelli propri delle tradizioni religiose orientali» si compongono «nel gioco dei diversi livelli dell’attività psichica»; tuttavia «il suo insegnamento travalica l’antropologia ed è decisamente metafisico e teologico» (Jean Troulliard, s.v., DP = Dictionnaire des philosophes, 2e ed., Paris, Presses Universitaires de France, 1993, II, p. 2343).

39 Ermia (sec. V), filosofo neoplatonico; «fu condiscepolo di Proclo ad Atene alla scuola di Siriano il Grande, ma visse e insegnò ad Alessandria, dove continuò il misticismo e l’allegorismo di Giamblico» (Giuseppe Faggin, EF, II, p. 24) e «tramandò la metafisica della scuola di Siriano»; di suo «ci resta, integro, un ampio commento al Fedro di Platone» (Wolfgang Bernhard, s.v., MLAA = Metzler Lexikon Antiker Autoren, Stuttgart, Metzler, 1997, p. 299).

40 Damascio (ca. 462-dopo il 538), filosofo neoplatonico. Damascio «portò senza dubbio a compimento il progetto di riorganizzazione della “scuola” neoplatonica [di Atene], caduta in disgrazia dopo la morte di Proclo (485) e provata da difficoltà sia esterne – il trionfo del cristianesimo – sia interne – la precaria salute di Marino, successore immediato di Proclo, e la spiccata predilezione di Egia per la teurgia a detrimento della filosofia». In effetti, «la “riforma” intrapresa da Damascio [...] fu uno sforzo di restaurazione della filosofia contro il cristianesimo e contro l’invadenza della teurgia» (Philippe Hoffmann, s.v., in DAP = Dictionnaire des philosophes antiques, Paris, Éditions du CNRS, 1989-, II, p. 555).  «Quando l’Accademia di Atene, di cui egli era scolarca, fu chiusa per ordine di Giustiniano (529), esulò insieme con Prisciano e Simplicio presso il re di Persia, da cui invano sperò la rinascita del neoplatonismo» (Giuseppe Faggin, EF, I, p. 1390).

41 Olimpiodoro (prima del 510-dopo il 565), filosofo neoplatonico, «discepolo di Ammonio ad Alessandria, giunse alla cattedra di filosofia verso il 541» (Luc Brisson, DP, s.v., II, p. 2159). «Westerink giustamente ricorda l’“estrema flessibilità” della sua dottrina, che sembra intendesse recare il minor disturbo possibile ai suoi studenti cristiani, senza rinunciare ai principi platonici» (Harold A. S. Tarrant, s.v., ECP, p. 358). Tuttavia, «anche se buona parte del suo uditorio era formato da cristiani, [Olimpiodoro] non si è mai convertito al cristianesimo»; di suo «ci restano commenti ad opere di Platone e di Aristotele» (Luc Brisson, loc. cit.). Olimpiodoro è presente nella biblioteca di Pico (Kibre: 1130).

42 Il ms. Palatino reca qui un’aggiunta, che Garin trascrive: Sunt haec veritatis privilegia, ut vinci nesciat et coniecta contra spicula in auctores redeant (Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze, Sansoni, 1961, pp. 239-40). Seguendo Garin, Boulnois e Tognon traducono: «Tels sont les privilèges de la vérité: elle ne peut être vaincue, et les traits qu’on fait pleuvoir sur elle retombent sur ceux qui les ont lancés» (BT, p. 49, nota 20). Ma cfr. Testo latino e sinossi, cit., pp. 136 e 157: Sane hoc veritatis privilegio, ut vinci nesciat et contorta in eam spicula in auctores redeant. Si interrompe di nuovo, a questo punto, la corrispondenza col testo di P, che ritorna in § 32: 206 e in § 47: 293.     

43 Plato, Epistula VII, 341 d : hrêton gar oudamôs estin hôs alla mathêmata, all’ek pollês sunousias gignomenês peri to pragma auto kai tou suzên exaiphnês, hoion apo puros pêdêsantos exaphthen phôs, en têi psuchêi genomenon auto heauto êdê trephei [«non c’è modo infatti di esprimere queste cose con parole, come si fa nelle altre scienze, ma è solo quando si è a lungo indugiato su questi problemi, quando si è convissuto con essi, che la verità nasce improvvisamente nell’anima, come la luce si accende per lo scoccare di una scintilla, e poi si mantiene da sé»]. (An, B, BT, G, K, M, R, S, T)

44 Il ms. Palatino riporta: «Infatti è certo che tutta la sapienza è passata dai barbari ai Greci e dai Greci a noi». Cfr. Testo latino e sinossi, cit., p. 154: Ferme enim omnis sapientia a barbaris ad grecos, a grecis ad [latinos cancellato] nos manavit. Cfr. Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, I. Prooem. 1 (p. 1, 1 Long I): to tês philosophias ergon enioi phasin apo barbarôn arxai («Affermano alcuni che la ricerca filosofica abbia avuto inizio dai barbari», I. Proem. 1, p. 3 Gigante I). Secondo Cicognani, è questo il luogo «da cui Pico riprende l’affermazione dell’origine prima apo barbarôn, apud barbaros, della filosofia» (C 120, nota 70). Il testo  così prosegue ( p. 1,  2-7): gegenêsthai gar para men Persais Magous, para de Babylôniois ê Assuriois Chaldaious, kai gumnosophistas par’Indois, para te Keltois kai Galatais tous kaloumenous Druïdas kai kai Semnotheous, kata phêsin Aristotelês en tôi Magikôi (Rose 35) kai Sôtiôn en tôi eikostôi tritôi tês Diadochês. Phoinika te genesthai Ôchon, kai Thraika Zalmoxin, kai Lubin Atlanta («Ed infatti Aristotele nel libro Magico e Sozione nel libro ventitreesimo della Successione dei filosofi dicono che gli iniziatori furono i Magi presso i Persiani, i Caldei presso i Babilonesi e gli Assiri, e i Gimnosofisti presso gli Indiani, i cosiddetti Druidi e Semnotei presso i Celti ed i Galli. E che inoltre nella Fenicia nacque Oco, nella Tracia Zamolsi e nella Libia Atlante», I, Proem. 1, p. 1 Gigante I). Il Gigante (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Bari, Laterza, 1976, II, p. 457, nota 3) fa notare che per Semnotheous il Roeper congetturò Samanaious (Gottl. Roeper, ‘Emendationen zu Diogenes Laertius,’ Philologus, I (1846), pp. 652-53), che allude agli sciamani (v. infra, § 37: 238, note 82 e 83). La congettura del Roeper si fonda sul confronto del passo di Diogene Laerzio con due passi paralleli in Clemente Alessandrino (Stromata, I. xv. 71. 4 p. 45, 19-26 Stählin-Früchtel I : Philosophia toinun poluôphelesw ti chrêma palai men êkmase para barbarois kata ta ethnê dialampsasa, husteron de kai eis Hellênas katêlthen. proestêsan d’autês Aiguptiôn te hoi prophêtai kai Assuriôn hoi Chaldaioi kai Galatôn hoi Druïdai kai Samanaioi Bktrôn kai Keltôn hoi philosophêsantes kai Persôn hoi Magoi [...] Indôn te hoi gumnosophistai, alloi ge philosophoi barbaroi) e in Cirillo di Alessandria (Contra Iulianum, IV, PG 76, 705 : ephilosophêsan de kai par’Aiguptiois hoi prophêtai, kai (nai;) men kai Assuriôn Chaldaioi kai Galatôn hoi Druïdai kai ek Bktrôn tôn Persôn Samanaioi kai Keltôn ouk oligoi kai para Persais hoi Magoi kai par’Indois hoi gumnosophistai, apud Roeper, p. 653). Il Gigante ricorda inoltre che «il Magico attribuito ad Aristotele è spurio» e che «Diogene Laerzio ricava da Sozione le citazioni del Magico e di Ermodoro, da Ermippo le citazioni dal Peri philosophias di Aristotele e dalla Periodos di Eudosso» (in Diogene Laerzio, Vite, II, p. 457, nota 1). Su Eudosso ed Ermippo cfr. infra § 38: 243. L’origine delle dottrine sapienziali presso i barbari è ricordata inoltre da Eusebio, in Praeparatio evangelica, IX. 10. 1-7 (pp. 495, 12 - 496, 20 Mras-des Places I ); ed anche ibid., XIV. 10. 4-5 (p. 287, 14-19 Mras-des Places II) (BT, G, M, S, T). Eusebio, che cita estesamente Porfirio (De philosophia ex oraculus haurienda, pp. 140-41 Wolff), è ripreso successivamente da Teodoreto, in Curatio, I. 41 sqq. (p. 16, 6 sqq. Raeder) (G, S, M).

45 Il ms. Palatino aggiunge: «Senz’altro è necessario ottenere le conoscenze sacre e i misteri più segreti in primo luogo dagli ebrei e dai caldei e poi dai greci. Gli arabi condividono con i greci tutte le altre arti e le più svariate conoscenze filosofiche. Chi non si accosta a loro, come potrà progredire in queste conoscenze? Ma dal momento che moltissimi dei loro libri, compresi quelli più preziosi, sono giunti da noi senza nessuna traduzione e di quelli che ci sono giunti i traduttori hanno poi travisato più cose di quante ne abbiano reso convenientemente, si è allora evidentemente diffusa su tutto quanto una tale caliginosa oscurità, che ciò che per i suoi lettori nativi risulta facile, chiaro e utile, fattosi com’è per noi pieno di asperità e di contorcimenti, sfugge e vanifica immediatamente lo sforzo di comprensione degli studiosi». Cfr. Testo latino e sinossi, cit., p. 155: sacras omnino litteras et mysteria secretiora ab hebreis primum atque chaldeis, tum a grecis petere necessarium. Reliquas artes et omnifariam philosophiam cum grecis arabesque partiuntur. Quos qui non adit, qui in illis progrediatur? Quando permulti hique pretiosiores eorum libri ad nostros nullo interprete pervenerunt, et horum qui pervenerunt  tum plures inverterunt potius quam converterunt illi interpretes, tum certe omnibus eam caliginem obscuritatis offuderunt, ut quae apud suos facilia, nitida et expedita sunt, apud nos scrupea facta, laciniosa studiosorum conatum eludant plurimum atque frustrentur.

46 I commentatori rimandano al De vera religione, III. 3, (B, BT, An, K, R, T) ma come ricorda il Reich «un riferimento esatto non è stato documentato» (R, p. 64, nota 66). Il Reichl rinvia piuttosto, senza indicare il luogo, al De civitate Dei, VIII, 11 (p. 336, 26-29 Dombart-Kalb I): mirantur autem quidam nobis in Christi gratia sociati, cum audiunt vel legunt Platonem de Deo ista sensisse, quae multo congruere veritati nostrae religionis agnoscunt. Cfr. anche De civitate Dei, IX. 1 (p. 368, 29-30 Dombart-Kalb I): hoc Platonici, praecipui philosophorum ac nobilissimi, sentiunt; e «molti altri passi» (K, p. 244, nota 37); cfr., ad esempio, VIII. 5 (p. 327, 1-2 Dombart-Kalb I) nulli nobis quam isti [scil. Platonici] propius accesserunt; VIII, 9 (p. 334, 4-13 Dombart-Kalb I): quicumque [...] sive Platonici accomodatius nuncuperentur [...] hoc viderint ac docuerint: eos omnes ceteris anteponimus eosque nobis propinquiores fatemur; VIII. 10 (p. 336, 8-16,  Dombart-Kalb I): Heac itaque causa est cur istos caeteris praeferamus, quia, cum alii philosophi ingenia sua studiaque contriverint in requirendis rerum causis, et quinam esset modus discendi atque vivendi, isti Deo cognito repererunt ubi esset et causa constitutae universitatis et lux percipiendae veritatis et fons bibendi felicitatis. Sive ergo isti Platonici sive quicumque alii quarumlibet gentium philosophi de Deo ista sentiunt, nobiscum sentiunt; VIII. 12 (p. 339, 14-17 Dombart-Kalb I): recentiores philosophi nobilissimi, quibus Plato sectandus placuit, noluerint se dici Peripateticos aut Academicos, sed Platonicos. Cfr., inoltre, Contra Academicos, III. 20. 43 (p. 71, 23-24 Green): apud Platonicos me interim, quod sacris nostris non repugnet, reperturum esse confido. Il De civitate Dei è presente tra i libri di Pico (Kibre: 194), assieme al commento di Tommaso Anglico (Kibre: 539).

47 Cfr. Gellio VII. xiii. 1-2 (p. 267, 4-8 Marshall): Factitatum observatumque hoc Athenis est et ab his, qui erunt philosopho Tauro iunctiore: cum domumsuam nos vocaret, ne omnino, ut dicitur, immunes et asymboli veniremus, coniectabamus ad cenulam non cuppedias ciborum, sed argutias quaestionum («Ad Atene coloro che erano molto legati al filosofo Tauro osservavano questa pratica: quando c’invitava a casa sua, per non andarvi, come si usa dire, senza pagar dazio e senza contributo, apportavamo a quelle cenette non pasticcini ma sottili argomenti di discussione», An, p. 77, nota 94); cfr. Kibre: 420. (An)

48 Cfr. Conclusiones quingentae secundum opinionem propriam (1>1 - 11>72, pp. 364-553 Farmer) e infra, § 33: 212. In realtà, le tesi di questa seconda sezione principale dell’opera, che erano 500 in origine, risultano nella redazione finale soltanto 498; in compenso, però, le tesi della prima sezione principale, 400 in origine, diventano nella stesura finale 402 (cfr. F, p. 8).

49 Seneca, Ad Lucilium epistulae morales, 33 (iv. 4). 7 (p. 95, 6-12 Reynolds I) : Certi profectus viro captare flosculos turpe est et fulcire se notissimis aut paucissimis vocibus et memoria stare: sibi iam innitatur. Dicat ista, non teneat; turpe est enim seni aut prospicienti senectutem ex commentario sapere. ‘Hoc Zenon dixit’: tu quid? ‘Hoc Cleanthes’: tu quid? Quousque sub alio moveris? impera et dic quod memoriae tradatur, aliquid de tuo profer; (An, B, BT, C, G, K, M, R, S, T) cfr. Kibre: 995. (An)

50 Cfr. Conclusiones secundum priscam doctrinam Mercurii Trismegisti Aegyptii numero .x. (27.1-10, pp. 340-43 Farmer). «Sotto il nome del (dio egizio) Ermete Trismegisto circolavano numerosi scritti, di contenuto in parte astrologico, in parte platonico-neopitagorico, che si presentavano come traduzioni di antichissimi scritti egiziani. Si tramanda un corpus di 18 scritti, che probabilmente sono stati raccolti in epoca tardo-antica in ambienti neoplatonici. Il Corpus Hermeticum fu tradotto nel 1463 dal Ficino, che fu fortemente influenzato dalla sapienza mistica di questi testi» (R, p. 64, nota 66). «Il Corpus è un complesso di libelli [...] il primo dei quali hai il titolo di Poimandrês (da poimên ‘pastore’ e anêr ‘uomo’) che poi per errore di Marsilio Ficino che nel 1471 [sic] tradusse in latino i primi 14 libelli, passò nella tradizione all’intero Corpus» (Guido Calogero, s.v. Ermete Trsmegisto, in Enciclopedia italiana, XIV, p. 247). Ma sull’etimologia, cfr. anche Jens Holzhausen (s.v. Poimandres, in NP = Der Neue Pauli: Enziklopädie der Antike, Stuttgart, Metzler, 1996-, IX, p. 1192): «Alla base del nome sta forse [...] l’espressione composta copta p-eime nte-rê (‘facoltà intellettuale del dio sole’) [...] una perifrasi per il dio egizio Toth [...]. Il nome corrisponde al modo in cui P. designa se stesso: ho tês authentias Nus, ‘l’itelletto della somma potenza’ (CH i 1) [...]. Alla base del nome sta, al tempo stesso, un’etimologia greca: ‘l’intelletto è il pastore (poimainei) del tuo Logos’ (CH xiii 19); cfr. Zosimos, 120, 28 sqq. Tonelli: Poimenandra come ‘pastore d’uomini.’ [...] Qualcuno versato in entrambe le tradizioni ha collegato la radice copta con l’etimologia greca e inventato il nome».

51 Cfr. Conclusiones secundum opinionem Chaldeorum theologorum numero .vi. (26.1-6, pp. 338-39 Farmer). Caldea e Caldei sono, rispettivamente, «nomi di territorio e di popolo che appaiono nei documenti cuneiformi e nella Bibbia» (Giulio Cesare Teloni, in EI = Enciclopedia italiana, 1929-37, s.v., VIII, p. 382). Il nome ‘Caldea,’ originariamente ririferito all’estrema parte meridionale della Mesopotamia, venne in seguito usato per designare l’intero territorio babilonese. I Caldei giunsero probabilmente dall’Arabia e col declino della potenza assira una dinastia di origine caldea prese il sopravvento a Babilonia (626 a.C.) fino all’invasione persiana (529 a.C.). Il prestigio dei regnanti fu tale che «il termine ‘caldeo’ divenne sinonimo di ‘babilonese’ (Daniele, iii. 8; ix. 1)». (John Dyneley Prince, in EB = Encyclopedia Britannica, 15. ed., 1956, s.v., p. 195). «Inoltre, ‘caldeo’ venne usato più specificamente nelle opere di Erodoto, Diodoro e Strabone, oltre che nel libro di Daniele, per designare i sacerdoti e altri studiosi della letteratura babilonese classica, in particolare i cultori della tradizione astronomica  e astrologica » (Donald John Wiseman, EB, 1973, s.v., pp. 240-41). «In Daniele i. 4, con l’espressione ‘lingua dei Caldei’ l’autore intende evidentemente la lingua in cui erano scritte le famose opere babilonesi sull’astrologia e la divinazione» (EB, 1956, p. 195). Ma «neppure potremmo escludere che lo scrittore biblico con ‘lingua dei Kasdîm’ accennasse a qualche gergo segreto e sacro proprio di essi. Perché Kasdîm nella Bibbia ha, oltre il significato di Caldei, quello di sapienti e astrologi o in generale studiosi di scienze occulte» (EI 382). Tuttavia, «fino agli inizi del XX secolo» (EB, 1973, p. 240), ‘caldaico’ era un «termine applicato alle parti aramaiche dei libri di Esdra e Daniele o alle volgarizzazioni dell’Antico Testamento» (EB, 1956, p. 195). Sicché «questa denominazione scorretta (la quale va sostituita con quella di ‘aramaico’) deve la sua origine all’erronea opinione che i Giudei della Palestina abbiano preso direttamente il loro idioma dalla Caldea». Il Farmer però sembra assumere che «il ‘caldaico’» insegnato da Flavio Mitridate a Pico fosse in realtà «l’aramaico» (F, p. 3). Cfr. supra § 30: 192 (ms. Palatino). I testi ‘caldei’ che Pico dichiara di avere per le mani in una lettera al Ficino del 1486 sono verosimilmente opera, secondo il Farmer, di falsificazioni di Mitridate (F, pp. 13 e 486-87 nota) e «benché Pico dichiarasse di avere a sua disposizione fonti caldaiche originali», le “conclusioni secondo l’opinione dei Caldei” «erano probabilmente tratte genericamente da fonti neo-platoniche» (F, p. 338, nota), in cui sono direttamente citati gli Oracoli caldaici (cfr. infra, § 38: 250, nota 103), «che ci sono conservati solo in frammenti, segnatamente da Psello e dai platonici» (R, p. 50, nota 45, a commento di § 238: 137).

52 Cfr. Conclusiones secundum mathemathicam Pythagorae numero .xiiii. (25.1-14, pp. 334-37 Farmer). Pitagora (VI sec. a.C.) è giudicato «una delle figure più misteriose e influenti nella storia intellettuale della Grecia» (Charles H. Kahn, s.v., OCD = The Oxford Classical Dictionary, Oxford, Oxford University Press, 1996, p. 1283). «La documentazione che abbiamo sulla sua vita non ci permette assolutamente di distinguere ciò che riguarda la leggenda e ciò che appartiene alla storia nella straordinaria personalità di questo riformatore religioso, matematico, taumaturgo ispirato, che qualcuno ha potuto paragonare agli sciamani orientali» (Jean-François Mattei, s.v., DP, II, p. 2373-74). Sulle influenze sciamaniche, cfr. supra, § 32: 206, nota 44; e infra § 37: 238, note 82 e 83.

53 Cfr. Conclusiones cabalistice numero .xlvii. secundum secretam doctrinam sapientum hebreorum cabalistarum, quorim memoria sit semper in bonum (28.1-47, pp. 344-63 Farmer). Pico si riferisce qui alle dottrine della Qabbalah. Il termine, che «significa ‘recezione’ o ‘dottrine recepite per tradizione’», fu «originariamente usato per distinguere i libri profetici e agiografici dal Pentateuco»; nell’uso successivo «il termine talvolta includeva le tradizioni orali incorporate nella Mishnah  e fu infine applicato ad un gruppo di dottrine segrete riguardanti la natura della Divinità e la sua relazione col mondo» (s.v., in Encyclopedia Britannica, 15. ed. (1956), p. 233).

54 Cfr. Conclusiones quingentae secundum opinionem propriam (1>1 - 11>72, pp. 364-553 Farmer), in realtà solo 498 (cfr. supra, § 32: 209, nota 48).

55 Cfr. Conclusiones paradoxae numero .xvii. secundum propriam opinionem, dicta primum Aristotelis et Platonis, deinde aliorum doctorum conciliantes qui maxime discordare videntur (1>1-17, pp. 364-73 Farmer) e segnatamente 1>1 (p. 364-65 Farmer): Nullum est quaesitum naturale aut divinum in quo Aristoteles et Plato sensu et re non conveniant, quamvis verbis dissentire videantur. Diversamente dagli autori citati, Pico scrisse espressamente un’opera per dimostrare l’accordo tra Platone ed Aristotele. «Il Mirandolano afferma d’essere il primo a proporre la concordia tra i due massimi filosofi greci “dopo molti secoli” [cfr. supra, § 32: 208]» e secondo il Pignagnoli «l’affermazione [...] è vera nel senso che nessuno sino allora s’era impegnato a fondo» (P, p. 123, nota 123). L’opera, forse rimasta incompiuta, non ci è pervenuta. Ma Pico ne parla esplicitamente nel De ente et uno, che secondo Boulnois e Tognon «ne è senza dubbio un frammento» (BT, p. 109, nota 50); cfr. Prooem., p. 386 Garin: de his fusius in ipsa quam adhuc parturio ‘Platonis Aristotelisque Concordia’ sim scripturus; e ancora, cap. V, p. 416 Garin: sed profanam hanc opinionem quinta decade nostrae Concordiae incessimus. (Come il De ente et uno, anche la Concordia era ordinata in ‘decadi’ per «suggerire l’importanza di questo numerus numerorum pitagorico», (F, p. 30); cfr. Conclusiones, 9>23 Farmer : quilibet numerus praeter ternarium et denarium unt materiales in magia; isti formales sunt, et in magica arithmetica sunt numeri numerorum.) Probabilmente Pico «compose il De ente et uno, nel 1491, come un primo abbozzo della Concordia» (F, p. 25). Secondo il Farmer, l’idea dell’accordo tra Platone ed Aristotele «è strettamente legata alla fallita discussione delle tesi in Vaticano» (p. 11) e il fatto che la Concordia «fosse stata progettata come una diretta prosecuzione e presumibilmente come una difesa della sua fallita discussione vaticana [...] fu motivo sufficiente perché il nipote ne impedisse la pubblicazione», anche se «molti elementi suggeriscono che l’opera era già finita, o quasi finita, al momento della morte di Pico» (p. 36). A suo giudizio, infatti, nelle Disputationes Pico «fa riferimento alla Concordia come se fosse già stata completata»; cfr. Disputationes adversus astrologiam divinatricem, III. 4 (Opera = Ioannis Pici Opera omnia, Basileae, 1557, rist. anast., Hildesheim, Olms, 1969, I, p. 460; p. 208, 17-21 Garin I): Nemo autem dixerit in luc, sive per lucem esse, quae ab anima est, vim videndi, quamquam sine luce non videamus. Possit aliis, necne, vita coeli rationibus comprobari, disputatum a nobis in Concordia Platonis et Aristotelis. («Nessuno, ugualmente, direbbe che è nella luce o che deriva dalla luce quella capacità visiva che è propria dell’anima, pur essendo impossibile vedere senza la luce. Se poi la vita del cielo si possa, o meno, provare con altre ragioni, noi abbiamo già esaminato nella Concordia di Platone e di Aristotele »). Tuttavia, benché avesse egli stesso riconosciuto, in una lettera a Ercole Strozzi, non nihil de Platonis Aristotelisque concordia depromere posse arbitramur (G. F. Pico, Opera, II, p. 1330), Gian Francesco non pubblicò mai l’opera. Anzi «plagiò abbondantemente la Concordia di Platone ed Aristotele dello zio, ora perduta, per produrre la sua anti-concordia nell’Esame della vanità della dottrina delle Genti » (F, p. 164) dove scrive esplicitamente: Ioannes Picus Galetti [sic] patris frater [...] utranque se conciliaturum philosophiam Platonis Aristotelisque receperat [...] ego vero [...] non conciliare, sed infirmare universam Gentium doctrinam tentavi (G. F. Pico, Opera, II, p. 1026). Per un altro rimando, cfr. Heptaplus, V. 4 (Opera, I, p. 37; p. 298 Garin I): Quare ad opus haec destinatum differimus, quo Aristotelem Platoni conciliantes universam philosophiam pro virtutibus tractandam examinandamque suscepimus («Perciò rimando queste cose all’opera che mi propongo di dedicare ad esse dove, conciliando Aristotele con Platone, ho preso a trattare e ad approfondire secondo le mie forze tutta la filosofia»). Secondo il Farmer (F, p. 36, nota 96),  si tratta di un riferimento alla Concordia, secondo Boulnois e Tognon (BT, p. 210, nota 218) alle Disputationes adversus astrologiam divinatricem.

56 Boethius, In librum Aristotelis Peri hermêneias commentarii. Secunda editio, II c. 3 (p. 80, 1-6 Meiser): his peractis non equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammodo revocare concordiam eosque non ut plerique dissentire in omnibus, sed in plerisque et his in philosophia maximis consentire demonstrem; (An, B, BT, G, M, R, S, T) cfr. Kibre: 119. (An)

57 Cfr. Simplicius, In Aristotelis Categorias commentarium, Prooem. (p. 7, 29-32 Kalbfleisch): dei de oimai kai tôn pros Platôna legomenôn autô mê pros tên lexin apobleponta monon diaphrônian tôn philosophôn katapsêphizesthai, all’eis ton noun aphorônta tên ev tois pleistois sumphônian autôn anicheuein [«credo che anche dove dice qualcosa contro Platone, non si debba optare, considerando solo la forma dell’espressione, per un disaccordo tra i due filosofi, ma badando al senso, riconoscere il loro accordo sulla maggior parte delle questioni»]. (An, B, BT, G, M, R, S, T) Cfr. anche Id., In Aristotelis Physicorum libros commentaria, VIII. 5 [Arist. p. 258 b 4] (p. 1249, 12-13 Diels II): hôste ou peri pragma nun, alla peri onoma tois philosophois estin hê diaphora, hôsper kai en tois pleiosi tôn allôn [«sicché qui, come nella maggior parte delle altre questioni, c’è un disaccordo dei due filosofi non sulla cosa, ma sulla sua denominazione»]; (An, BT, G, M, S, T) e Id., In Aristotelis De caelo commentaria, III. 7 [Arist. p. 306 a 1] (p. 640, 27-29 Heiberg): hoper de pollakis eiôtha, kai nun eipein kairos, hoti ou pragmatikê tis esti tôn philosophôn diaphônia [«com’è già capitato più volte, è opportuno ribadire che non c’è praticamente nessun disaccordo tra i due filosofi, se non restando all’apparenza del discorso»]. (B, G, R) Per la presenza di Simplicio tra i libri di Pico, cfr. supra, § 31: 200, nota 29. Un giudizio del tutto analogo è espresso direttamente da Pico in una lettera a Ermolao Barbaro del 6 dicembre 1484: Diverti nuper ab Aristotele in Academiam, sed non transfuga, ut inquit ille, verum explorator. Videor tamen (dicam tibi Hermolaë quod sentio) duo in Platone, et Homericam illam eloquendi facultatem, supra prosam orationem sese attollentem, et sensuum, si quis eos altius introspiciat, cum Aristotele omnino communionem, ita ut si verba spectes, nihil pugnantius, si res nihil concordius (Opera, I, pp. 368-69). Cfr., inoltre, Cicero, Academici, I. 4. 17-18 (p. 7, 22-26 Plasberg): Platonis autem auctoritate, qui varius et multiplex et copiosus fuit, una et consentiens duobus vocabulis philosophiae forma instituta est Academicorum et Peripateticorum, qui rebus congruentes nominibus differebant; Ibid., I. 4. 18 (p. 8, 10-12 Plasberg): quae quidem [scil. ars quaedam philosophiae] erat primo duobus ut dixi nominibus una; nihil enim inter Peripateticos et illam veterem Academiam differebat; Id., Lucullus, 5. 5 (p. 34, 9-13 Plasberg): Plato [...] reliquit perfectissimam disciplinam, Peripateticos et Academicos nominibus differentes re congruentes, a quibus Stoici ipsi verbis magis quam sententiis dissenserunt. (F)

58 Cfr. Augustinus, Contra Academicos, III. 19. 42, (p. 70, 28-31 Green): non defuerunt acutissimi et sollertissimi viri qui docerent disputationibus suis Aristotelem ac Platonem ita sibi concinere, ut imperitis minusque attentis dissentire videantur. (An, B, BT, G, K, M, R, S, T)

59 Giovanni Filopono (ca. 490-570) «filosofo e teologo cristiano, discepolo di Ammonio di Ermia ad Alessandria»;  philoponos, o “amante del lavoro,” «è appellativo di membri di certe associazioni ascetiche»   (Giuseppe Faggin, s.v., EF, II, p. 758); «Egli stesso si definì grammatikos, ma si interessò di molte di più cose che di sola filologia. Non c’è quasi nessun campo della cultura antica e della teologia di cui non si sia occupato» (Clemens Scholten, s.v., MLAA, p. 359); «il nome “Giovanni” implica che Filopono fosse cristiano di nascita», ma «nel 680/1 le sue opinioni furono dichiarate anatema. Di conseguenza, le sue concezioni filosofiche e scientifiche ebbero scarsa influenza diretta fino al momento della loro riscoperta nell’età del Rinascimento, quando, tra gli altri, ispirò anche Galileo» (Lawrence P. Schrenk, s.v., ECP, p. 385). Improbabile la supposizione del Reich, secondo cui dovrebbe trattarsi di «Giovanni di Garlandia, vissuto circa dal 1190 al 1260/70, grammatico, lessicografo, musicologo, pedagogo» (R, p. 66, nota 72). È rappresentato nella biblioteca di Pico (Kibre: 449, 1131). (An)

60 Cfr., in particolare, Conclusiones, 1>2-9, 14 e 17 (pp.366-71 Farmer).

61 Cfr., in particolare, Conclusiones, 1>15-16 (pp. 370-71 Farmer).

62 Cfr. Conclusiones philosophice secundum propriam opinionem numero .lxxx. que licet a communi philosophia dissentiant, a communi tamen philosophandi modo non multum abhorrent (2>1-80, pp. 372-97 Farmer). Anche in queste tesi , secondo il Farmer, Pico «risolve numerosi conflitti scolastici correnti» (F, p. 206).

63 Si tratta delle Conclusiones paradoxae secundum opinionem propria nova in philosophia dogmata inducentes, che nell’editio princeps sono però indicate essere numero lxxi (3>1-71, pp. 398-421 Farmer). La discrepanza nel numero si spiega con le modifiche che Pico operò «nel tempo immediatamente precedente e, a quanto pare, durante il tempo stesso  in cui l’opera era in corso di stampa» (F, p. 183). Un «errato riferimento interno» indica che anche «una delle ‘conclusioni paradossali che introducono nuove dottrine in filosofia’» fu «esclusa» dalla redazione finale (F, p. 461). Tra le Conclusiones magicae secundum opinionem propriam, infatti, si legge: ex ista conclusione et conclusione paradoxa dogmatizante .xlvii. sequitur... (9>4, p. 495 Farmer); ma «il riferimento è in realtà alla quarantaseiesima ‘tesi paradossale dogmatizzante’» (F, p. 495, nota). Secondo il Farmer, la tesi fu espunta «quasi certamente per ragioni teologiche» (F, p. 18, nota 49). Queste ‘settantadue’ tesi, o le settantuno restanti, compendiano la philosophia nova che Pico intendeva introdurre (cfr. nota alla proposizione seguente, § 35: 219). 

64 Il Farmer fa osservare che «gli storici hanno d’abitudine ignorato questo passo», in cui Pico dichiara espressamente di volere introdurre una nuova filosofia (novam afferre velle philosophiam), mentre dovrebbe risultare evidente, a suo giudizio, che in questo passo «cruciale» Pico «sottolineava l’importanza» proprio di quella parte delle novecento tesi in cui prendeva direttamente corpo il suo intento (F, p. 18). 

65 «Marsilio Ficino cita nella Teologia platonica un certo numero di  ‘teologi prischi’» (BT, p. 55, nota 21); cfr. Marsilius Ficinus, Platonica theologia de immortalitate animorum, VI. 1 (p. 224 Marcel I): sicut nos docent prisci theologi: Zoroaster, Mercurius, Orpheus, Aglaophemus, Pythagoras, Plato, quorum vestigia sequitur plurimum physicus Aristoteles; e anche, XII. 1 (pp. 157-58 Marcel II): cum haec Theologi Prisci cognoscerent, philosophiae studium semper cum religiosa pietate iunxerunt. Principio Zoroastris philosophia (ut testatur Plato) nihil erat aliud quam sapiens pietas cultusque divinus. Mercurii quoque Trismegisti disputationes omnes a votis incipiunt et in sacrificia desinunt. Orphei etiam Aglaophemique philosophia in divinis laudibus tota versatur. Pythagoras a matutino hymnorum sacrorum cantu philosophiae studia inchoabat. Plato non in dicendo solum, sed etiam in cogitando exordiri a Deo praecipiebat in singulis atque ipse semper exordiebatur a Deo. Il Pignagnoli osserva che «per prisca theologia (o theologia priscorum) il Ficino intendeva il pensiero sul “divino,” contenuto nel Corpus hermeticum [cfr. supra, § 33: 212, nota 50] e prima di questo, la sapienza di Zoroastro, contenuta negli Oracoli Caldaici [cfr. supra, § 238: 137; § 33: 212, nota 51; infra, § 38: 250, nota 103]» (P, p. 127, nota 130).

66 E. Wellmann (RE = Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaften, Stuttgart-Munchen, Druckenmüller, 1893-1978, I.1, p. 824) descrive Aglaofemo (Aglaophamos) come «il presunto maestro orfico di Pitagora, da cui avrebbe ricevuto in Tracia l’iniziazione». Cfr. infra, nota 67. Cfr. Iamblichus, De vita Pythagorica, 146 (p. 60, 1-9 Deubner): dêloutai dê dia tou hierou logou toutou [ê peri theôn logou, epigraphetai gar amphoteron] kai tis ên ho paradedôkôs Puthagorai ton peri theôn logon. legei gar: ‘<logos> hode peri theôn Puthagora tô Mnêmarchô, ton exemathon orgiastheis en Libêthrois tois Thraikiois, Aglaophamô telesta metadontos, hôs ara Orpheus hô Kalliopas kata to Paggaion oros hupo tas matros pinustheis epha, tan arithmô ousian aidion emmen archan promathestatan tô pantos ôranô kai gas kai tas metaxu phusios, eti de kai theiôn <anthrôpôn>kai theôn kai daimonôn diamonas hrizan.’ ek dê toutôn phaneron gegonen hoti tên arithmôi hôrismenên ousian tôn theôn para tôn Orphikôn parelaben [«si vede da questo Discorso sacro (oppure Discorso sugli dei, poiché esistono entrambi i titoli) chi fu che trasmise a Pitagora il discorso sugli dei, perché egli dice: “Questo (discorso) è quello che io Pitagora, figlio di Mnemarco, ho appreso per iniziazione nella terra tracia di Libetra, da Aglaofemo l’iniziatore, che mi comunicò che Orfeo, figlio di Calliope, ammaestrato dalla madre sul monte Pangeo, disse: ‘l’essenza eterna del numero è un principio molto provvidenziale di tutto il cielo, la terra e la natura intermedia; inoltre è fonte di permanenza per gli (uomini) divini, gli dei e i demoni.’” Da ciò dunque risulta chiaro che egli ebbe dagli Orfici l’idea che l’essenza degli dei è determinata dal numero»]. Cfr. Kibre: 844. Cfr. anche Aristoteles, Metaphysica, I. 5. 985 b 23 - 986 a 3 (pp. 13-14 Jaeger): hoi kaloumenoi Puthagoreioi tôn mathêmatôn hapsamenoi prôtoi tauta te proêgagon, kai entraphentes en autois tas toutôn archas tôn ontôn archas ôiêthêsan einai pantôn [...] eti de tôn harmoniôn en arithmois horôntes ta pathê kai tous logous; epei dê ta men alla tois arithmois ephaineto tên phusin aphômoiôsthai pasan, hoi d’arithmoi pasês tês phuseôs prôtoi, ta tôn arithmôn stoicheia tôn ontôn stoicheia pantôn hupelabon einai, kai ton holon ouranon harmonian einai kai arithmon («I cosiddetti Pitagorici si dedicarono per primi alle scienze matematiche, facendole progredire; e poiché trovarono in esse il proprio nutrimento, furono del parere che i princípi di queste si identificassero con i princìpi di tutte le cose. [...] Individuavano, inoltre, nei numeri le proprietà e i rapporti delle armonie musicali e, insomma, pareva loro evidente che tutte le altre cose modellassero sui numeri la loro intera natura e che i numeri fossero l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico; e per tutte queste ragioni essi concepirono gli elementi dei numeri come elementi di tutta la realtà, e l’intero cielo come armonia e numero»: I. 5. 985 b 23 - 986 a 3, pp. 20-21 Russo). (An)

67 Filolao (ca. 470-385 a.C.), «contemporaneo di Socrate e di Democrito», appartenne alla scuola di Pitagora e «per primo ne fece conoscere la dottrina attraverso un’ampia esposizione ( Peri phuseôs) di cui rimangono numerosi frammenti» (G. M. Pozzo, s.v., EF, II, 390).

68 Cfr. Proclus, Theologia Platonica, I. 5 (pp. 25, 24 - 26, 4 Saffrey-Westerink I) : dei de hekasta tôn dogmatôn tais Platônikais archais apophainein sumphôna kai tais tôn theologôn mustikais paradosesin; hapasa gar hê par’Hellêsi theologia tês Orphikês esti mustagôgias ekgonos, prôtou men Puthagorou para Aglaophêmou ta peri theôn orgia didachthentos, deuterou de Platônos hypodeixamenou tên pantelê peri toutôn epistêmên ek te tôn Puthagoreiôn kai tôn Orphikôn grammatôn [«in seguito è necessario mostrare che ognuna di queste dottrine è in accordo con i principi primi di Platone e con le tradizioni segrete dei teologi; infatti tutta la teologia greca è figlia della mistagogia di Orfeo: Pitagora fu il primo ad apprendere da Aglaofemo le iniziazioni che riguardano gli dei e Platone, successivamente, ha ricevuto dagli scritti pitagorici ed orfici la scienza interamente compiuta che li riguarda»]. (An, BT, G, M, S, T) A commento, Saffrey e Westerink aggiungono (ibid., pp. 138-39, nota 3) : «questa teoria secondo cui tutta la teologia ellenica viene da Orfeo attraverso l’intermediazione di Aglaofemo e di Pitagora, è esposta in un Discorso sacro (Hieros logos) attribuito a Pitagora. Secondo H. Thesleff, An introduction to the Pythagorean Writings of the Hellenistic Period, Åbo 1961, pp. 104-105, questo falso, in prosa dorica, potrebbe risalire al I secolo a.C. I frammenti sono stati raccolti dallo stesso H. Thesleff, The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, Åbo 1965, pp. 164-65. Il testo è citato per la prima volta da Giamblico, Vita Pyth. 146, p. 82.15 sqq. Deubner [cfr. infra § 31: 220, nota 65], Siriano vi fa allusione sei volte nel suo In. Met., e Proclo, In Tim. III, p. 161.2-6 e 168, 9 sqq., e In Eucl. p. 22.11-14, cita esplicitamente questo Discorso sacro come fonte della stessa teoria che espone qui dettagliatamente. Il testo della Theol. Plat. Manca in Thesleff, così come l’allusione di Damascio, Vit. Isid., fr. 41, p. 37.8-10 (con la nota di Zintzen). L’idea di attribuire a Orfeo la paternità della poesia e della filosofia greca è molto antica: v. i testi raccolti da Kern, Orph. Fragm., test. 244-52. Eric Robertson Dodds, The Greeks and the Irrational, Berkeley and Los Angeles 1951, pp. 147-49, ha mostrato la parentela effettiva delle dottrine orfiche e pitagoriche più antiche. Il personaggio misterioso che avrebbe iniziato Pitagora all’orfismo a Libetra in Tracia, Aglaofemo, non è per noi che un nome conosciuto proprio solo attraverso questo Discorso sacro apocrifo: cfr. Ch. A. Lobeck, Aglaophamos sive De theologiae mysticae Graecorum causis, Königsberg, [Borntraeger], 1829, pp. 722 sqq. Il testo della Theol. plat. È stato diffuso da Marsilio Ficino nell’ambiente culturale del Rinascimento italiano: cfr. H.D. Saffrey, ‘Notes platoniciennes de Marsile Ficin dans un manuscrit de Proclus,’ in Bibl. d’Humanisme et Renaissance, 21 (1959), 168 e 181-82; nonché: Egidio da Viterbo, Scechina, t. I, p. 139 Secret [non Pythagoram, non praeceptorem Aglaophemum ... citabo], e G. Pico della Mirandola, De hominis digitate, p. 146 Garin». Per i riferimenti di Proclo al Discorso sacro, cfr. In Platonis Timaeum Commentaria, IV [Tim. 40 e], p. 161, 2-6 Diels III: Puthagoreion de kai to tais Orphikais hepesthai genealogiais; anôthen gar apo tês Orphikês paradoseôs dia Puthagorou kai eis Hellênas hê peri theôn epistêmê proêlthen, hôs autos ho Puthagoras phêsin en tôi Hierôi logôi [«ma è un tratto pitagorico anche quello di seguire le Genealogie orfiche. Infatti è dagli insegnamenti orfici che la scienza riguardante gli dei è, attraverso Pitagora, discesa fino ai Greci, come dice Pitagora stesso nel Discorso sacro»]; (R, S) Ibid., V, Prooem. (p. 168, 9-15 Diehl III): ha gar Orpheus di’aporrêtôn logôn mustikôs paradedôke, tauta Puthagoras exemathen orgiastheis en Lebêthrois tois Thraikois Aglaophamô telesta metadontos hên peri theôn Orpheus sophian para Kalliopês tês mêtros epinusthê: tauta yar autos phêsin ho Puthagoras en tôi Hierôi logô [«infatti tutto quello che Orfeo aveva trasmesso in segreto sotto forma di dottrine esoteriche, Pitagora l’ha appreso a fondo al momento della sua iniziazione nelle terre di Libetra in Tracia, quando Aglaofamo l’iniziatore gli comunicò la scienza degli dei che Orfeo aveva appreso da sua madre Calliope: questo dice difatti Pitagora stesso nel Discorso sacro»]; (G, M, R, S) Id., In primum Euclidis Elementorum libri commentarii, Prologus, I (p. 22, 9-16 Friedlein): dio kai ho Platôn polla kai thaumasta dogmata peri theôn dia tôn mathêmatikôn eidôn hêmas anadidaskei kai hê tôn Puthagoreiôn philosophia parapetasmasi tou tois chrômenê tên mustagôgian katakruptei tôn theiôn dogmatôn. toioutos gar kai ho hieros sumpas logos kai ho Philolaos en tais Bakchais kai holos ho tropos tês Puthagorou peri theôn huphêgêseôs [«così Platone ci insegna molte meravigliose dottrine sugli dei per mezzo di forme matematiche e la filosofia dei Pitagorici nasconde sotto tali vesti le sue segrete dottrine teologiche. Lo stesso carattere è manifesto nell’intero Discorso sacro, nelle Bacchae di Filolao e in tutto il trattato di Pitagora sugli dei»].

69 Cfr. Plato, Epinomis, 976 d-e: alla mên dei phanênai ge tina epistêmê hên echôn sophos gignoit’an ho sophos ontôs ôn kai mê monon doxazomenos. [...] mia gar hôs eipein pros mian hê ton arithmon dousa panti tôi thnêtôi genei tout’an draseien; theon d’auton mallon ê tina tuchên hêgoumai donta hêmin sôizein hêmas [«ma deve senz’altro trovarsi una scienza il cui possesso possa produrre la saggezza di chi è realmente saggio e non sia solamente giudicato tale. [...] Infatti se ce n’è una più di un’altra, per così dire, che potrebbe farlo, essa è la scienza che ha dato il numero a tutto il genere mortale; e credo che che sia stato un dio, piuttosto che un caso, che con questo dono ci ha fatto salvi»]. (An, B, BT, C, G, K, M, R, S, T) L’Epinomide appartiene ad un gruppo di opere che «nell’antichità erano attribuite a Platone, ma la cui autenticità è stata posta in dubbio in epoca moderna». A questo gruppo di opere appartengono anche l’Alcibiade I e II (cfr. infra § 37: 239, nota 87). «Alcuni studiosi ritengono che l’Epinomide sia opera di Filippo di Opunte, ma se il dialogo è di Platone appartiene certamente al suo ultimo periodo» (Richard Kraut, s.v. Plato, in ECP, p. 389). Filippo di Opunte «sarebbe stato il segretario di Platone negli ultimi anni di vita e avrebbe curato la pubblicazione postuma delle Leggi », l’opera a cui l’Epinomide è tradizionalmente annesso (Karl-Heinz Stanzel, s.v., NP, p. 810). Secondo il Cicognani, però, il dialogo «già attribuito da molti, seguendo Diogene Laerzio (3, 37), a Filippo di Opunte, discepolo diretto di Platone, è oggi ritenuto autentico dai critici più autorevoli» (C, p. 118, nota 65). Cfr. anche Respublica, 522 d-e: Kai mên, ên d’egô, nun kai ennoô, hrêthentos tou peri tous logismous mathêmatos, hôs kompson esti kai pollachêi chrêsimon hêmin pros ho boulometha, ean tou gnôrizein heneka tis auto epitêdeuêi, alla mê tou kapêleuein. pêi dê; ephê. touto ge, ho nun dê elegomen, hôs sphodra anô poi agei tên psuchên [«E ora veramente mi accorgo, dopo aver parlato della scienza dei numeri, quant’è bella e utile sotto molti aspetti al nostro scopo, purché ce ne occupiamo a scopo di conoscenza e non di commercio. In che modo? chiese. Perché, come ho appena detto, essa conferisce all’anima un forte slancio verso l’alto»]. (BT, G, M, S, T)

70 Cfr. Plato, Epinomis, 978 b-c: iômen dê skepsomenoi pros tout' auto, pôs emathomen arithmein. phere: to gar hen dê kai duo gegone pothen hêmin  hôst’ennoêsai, phusin tautên echousin ek tou pantos pros to dunatous ennoein einai; pollois de allois au tôn zôiôn oud’eis auto touth’hê phusis paragegonen, hôste mathein dunatois einai para tou patros arithmein, para d’hêmin tout’auto prôton enôikisen ho theos, hôste hikanois einai deiknumenon sunnoein, epeit’edeixen kai deiknusin. La traduzione è controversa. Per alcuni, «ek tou pantos» dovrebbe riferirsi al Tutto o all’universo:  «Well then, let us go on to face the real point we are to consider. How did we learn to count? How, I ask you, have we come to have the notions of one and two, the scheme of the universe endowing us with a native capacity for these notions? There are many other creatures whose native equipment does not so much as extend to the capacity to learn from our Father above how to count. But in our own case, God, in the first place, constructed us with this faculty of understanding what is shown us, and then showed us the scene he still continues to show» (A. E. Taylor, in Plato, The Collected Dialogues (Bollingen Series lxxi), Princeton, N.J., Princeton University Press, p. 521).  Per altri «ek tou pantos» dovrebbe riferirsi all’insieme di tutti i viventi: «Veniamo ora ad esaminare questo preciso punto: come, cioè, abbiamo appreso a numerare. Donde si è generata in noi la nozione dell’uno e del due, in noi che fra tutti gli esseri dell’universo siamo i soli capaci di simili nozioni? A molti altri animali la natura non concesse il potere di apprendere dal proprio padre a contare, mentre, in noi, il dio per prima cosa ha stabilito la facoltà di comprendere quello che ci potesse venir mostrato, dopo di che ce lo ha mostrato e ce lo mostra ancora» (F. Adorno, in Platone, Dialoghi Politici. Lettere, vol. 2, Torino, UTET, 1988, p. 544). Ed è a quest’ultima interpretazione che pare accostarsi maggiormente la lettura pichiana.

71 Aristoteles, Problemata, XXX. 6. 956 a 11-13 (p. 38 Louis III) : dia ti anthrôpôi pisteon mallon ê allô zôiôi; poteron hôsper Platôn Neoklei apekrinato, hoti arithmein monon epistatai tôn allôn zôiôn; [«perché ci si deve fidare più dell’uomo che di ogni altro animale? forse perché, come Platone rispose a Neocle, tra tutti gli animali è il solo che sa contare?»]. (An, B, BT, C, G, K, M, R, S, T)

72 Abu Mashar (787-886), astronomo e astrologo persiano «conosciuto principalmente nell’Occidente europeo sotto il nome di Albumasar, studiò a Baghdad e fu contemporaneo del celebre filosofo al-Kindi (prima metà del secolo IX); dopo aver studiato le tradizioni islamiche, si dedicò principalmente allo studio dell’astronomia e dell’astrologia ed è a quest’ultima disciplina che deve la sua celebrità» (J. M. Millas, s.v., EI, I, p. 143). Abu Mashar «è annoverato tra i più famosi astrologi del Medioevo, soprattutto per la sua grande influenza in Occidente», dove divenne «l’autore principale su cui si studiava l’astrologia» (Paul Kunitzsch, s.v., LdM, I, p. 69).

73 «Chi sia questo Avenzoar babilonese», scrive Cicognani, «non mi è dato sapere». A suo giudizio, infatti, Pico considererebbe «di Babilonia» questo Avenzoar, «per distinguerlo dall’Avenzoar di Siviglia, medico famoso, primo tra gli Arabi ad ammettere la tracheotomia» (C, p. 119, nota 67). Quest’ultimo, chiamato dai Latini anche Abumaron o Abhomaron, fu considerato da Averroè, «suo amico e ammiratore», il «più grande medico fin dai tempi di Galeno». Abumaron, o più precisamente Abu Marwan ibn Zuhr (ca. 1094-1162), fu il «rappresentante più importante di una famiglia di medici, che per sei generazioni esercitò la professione nel mondo arabo-ispanico» (Hans H. Lauer, s.v., in LdM = Lexikon des Mittelalters, Artemis-LexMA, München, 1977-98, I, p. 1290). Pico ne considera le opinioni nelle Novecento tesi (cfr. Conclusiones secundum Abumaron Babylonium numero .iiii.,11.1-4, pp. 274-75 Farmer) e «attinge probabilmente alle discussioni di Averroè su Ibn Zuhr, che poteva tuttavia essere conosciuto anche direttamente attraverso una traduzione latina del Taysir, la sua opera medica più famosa». Infatti, «la prima edizione a stampa di questo testo, apparsa nel 1490-91, trovò il modo di entrare nella biblioteca di Pico» (F, p. 274, nota). Nelle Novecento tesi, Pico chiama, per qualche ragione, Abumaron ‘babilonese,’ ma resta l’incongruenza del suo detto riportato da Abumasar, che fu contemporaneo di al-Kindi e visse molto tempo prima. Il Cicognani trovò tuttavia «infruttuoso l’esame delle versioni latine dell’opera abumasariana» e afferma che «forse Avenzoar, nel testo pichiano, è un errore» (C, ibid.).

74 Plato, Respublica, 525 c : Prosêkon dê to mathêma an eiê, ô Glaukôn, nomothetêsai kai peithein tou smellontas en têi polei tôn megistôn methexein epi logistikên ienai kai anthaptesthai autês mê idiôtikôs, all’heôs an epi thean tês tôn arithmôn phuseôs aphikôntai têi noêsei autêi, ouk ônês oude praseôs charin hôs emporous ê kapêlous meletôntas, all’heneka polemou te kai autês tês psuchês hraistônês metastrophês apo geneseôs ep’alêtheian te kai ousian [«converrebbe dunque, Glaucone, rendere questa scienza obbligatoria e persuadere quelli che sono destinati a ricoprire le più alte cariche dello stato a intraprendere lo studio della matematica e ad applicarvisi, non in modo superficiale, ma fino a giungere col puro intelletto a penetrare la natura dei numeri, non per farla servire, come i bottegai e i mercanti, alle compere o alle vendite, ma per farne uso in guerra e per rendere più facile all’anima stessa il passaggio dal mondo sensibile alla verità e all’essenza»]. (An, B, BT, K, R, T)

75 Pico allude qui alle Questiones ad quas pollicetur se per numeros responsurum (7a>1-74, pp. 470-485 Farmer), in numero di settantaquattro, che sono comprese tra le Conclusiones de mathematicis secundum opinionem propriam numero .lxxxv. (7>1-11, 7a>1-74, pp. 466-485 Farmer) delle novecento tesi.

76 Cfr. le Conclusiones magicae numero .xxvi. secundum opinionem propriam (9>1-26, pp. 494-503 Farmer) e le Conclusiones numero .xxxi. secundum propriam opinionem de modo intelligendi hymnos Orphei secundum magiam, id est, secretam divinarum rerum naturaliumquesapientiam a me primum in eis repertam (10>1-31, pp. 504-15 Farmer) delle novecento tesi.

77 Porphyrius, De abstinentia, IV. 16. 1 (p. 25 Patillon; p. 253, 12-15 Nauck): para ge mên tois Persais hoi peri to theion sophoi kai toutou therapontes magoi men prosagoreuontai  [«ora, presso i Persiani, i teologi  e i ministri del culto portano il nome di Magi: questo è infatti il senso della parola ‘mago’ nella lingua del luogo»]; (An, B, BT, C, G, M, R, S, T) cfr. Kibre: 443 (An) Cfr. anche Apuleius, Apologia, XXV. 9 (p. 31Vallette) : quod ego apud plurimos lego, Persarum lingua magus est qui nostra sacerdos. (B, BT, R, T). «Nello stesso luogo Apuleio cita anche i due passi di Platone richiamati da Pico» (cfr. infra § 37: 239 e § 37: 240): si quidem magia id est quod Plato interpretatur, cum commemorat quibusnam disciplinis puerum regno adulescentem Persae imbuant – verba ipsa divini viri memini, quae tu mecum, Maxime, recognosce: Dis heptà de ginomenon etôn ton paida paralambanousin hous ekeinoi basileious paidagôgous onomazousin; eisi de exeilegmenoi Persôn hoi aristoi doxantes en hêlikiai tettares, ho te sophôtatos, kai ho dikaiotatos kai ho sôphronestatos kai ho andreiotatos. Hôn ho men mageian te didaskei tên Zôroastrou tou Hôromazou; esti de touto theôn therapeia; didaskei te kai ta basilika [cfr. Plato, Alcibiades I, 121 e-122 a] (XXV. 10-11, pp. 31-32 Vallette) ; e  idem Plato in alia sermocinatione de Zalmoxi quodam Thraci generis, sed eiusdem artis viro, ita scrpitum reliquit: tas de epôidas einai tous logous tous kalous [cfr. Plato, Charmides, 157 a. Quod si ita est, cur mihi nosse non liceat vel Zalmoxi bona verba vel Zoroastri sacerdotia? (XXVI. 4-5, pp. 32-33 Vallette) (R, p. 70, nota 80). Cfr. Kibre: 656.

78 Come nota il Bausi (Nec rhetor neque philosophus: Fonti, lingua e stile nelle prime opere latine di Giovanni Pico della Mirandola (1484-87), Olschki, Firenze, 1996, pp. 38 e 124) il termine disparilitas, qui usato da Pico nella locuzione disparilitas et dissimilitudo, «era già nella lettera al Barbaro» (§ 124 Bausi, in Ermolao Barbaro e Giovanni Pico della Mirandola, Filosofia o eloquenza?, a cura di Francesco Bausi, Napoli, Liguori, 1998: Nonne vides disparilitatem similitudinis?). «La voce (‘dissimilitudo, diversitas’) è in Gallio, Microbio, Apuleio, Calcidio e negli autori cristiani, ma anche nel Barbaro, Temistio, f. 114r». Oltre che nell’Oratio, torna «nell’Heptaplus, p. 190 Garin (disparilitas conditionis); e ricorre inoltre nella prefazione dei primi Miscellanea di Angelo Poliziano (cuius me quidam profiteor tali disparilitate discipulum: Poliziano, Opera, I, p. 213)». La «dittologia sinonimica con dissimilitudo è anche in Aug. Epist. cxx. 12».

79 Cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 1 (p. 420, 1 - 3, Mayoff IV): eo ipso quod fraudolentissima artium plurimum in toto terrarum orbe plurimisque saeculis valuit; ibid., 30. 2 (p. 420, 6 - 7, Mayoff IV): natam primum e medicina nemo dubitabit ac specie salutari inrepsisse velut altiorem sanctioremque medicinam. (G, M) Cfr. Kibre: 913. Come fanno osservare Boulnois e Tognon «queste sono le tesi ampiamente sviluppate da Pico nelle Disputationes adversus astrologiam divinatricem, che distinguono per la prima volta con chiarezza l’astronomia matematica dall’astrologia divinatrice» (BT, p. 57, nota 22); cfr. Disputationes adversus astrologiam divinatricem, Prooem. (Opera, I, p. 412; p. 40, 1-9 Garin I): Astrologiam vero cum dico, non eam intelligo quae siderum moles et motus mathematitica ratione metitur, artem certam et nobilem et suis meritis honestissimam auctoritateque hominum doctissimorum maxime comprobatam; sed quae de sideribus eventura pronunciat, fraudem mercenariae mendicitatis, legibus interdictam et civilibus et pontificiis, humana curiositate retentam, irrisam a philosophis, cultam a circulatoribus, optimo cuique prudentissimoque suspectam («E quando dico astrologia, non intendo quella che misura la grandezza e i moti delle stelle con metodo matematico, arte sicura e nobile, piena di dignità per i suoi meriti, largamente sostenuta dall’autorità di uomini dottissimi; ma quella che dal corso delle stelle prevede il futuro, speculazione bugiarda, vietata dalle leggi religiose e cvili, [mantenuta dalla curosità degli uomini, irrisa dai filosofi,] sostenuta dai ciarlatani, sospetta a tutti i buoni e a tutti i saggi»).

80 Cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 9 (p. 422, 15 - 17, Mayoff IV): quamquam animadverto summam litterarum claritatem gloriamque ex ea scientia antiquitus et paene semper petitam.

81 Empedocle (492-432 a.C.), «l’ultimo dei grandi filosofi naturalisti del V secolo»; Empedocle «ebbe una vita errabonda; se si descrivono i diversi aspetti della sua vita con “oratore - medico - sacerdote - mago,” con ciò non si intende altro che questo: che cercò di guarire, ordinare, conciliare» (Heinrich Dörrie, s.v., KP = Der Kleine Pauli: Lexikon der Antike, Stuttgart, Druckenmüller, 5 Bände, 1964-75, II, p. 258).

82 Democrito (ca. 460-ca. 370 a.C.) «fu uno dei principali rappresentanti dell’atomismo antico, che aveva appreso da Leucippo» (István Bodnár, s.v., NP, III, p. 455). «Secondo una testimonianza sua propria conservataci da Clemente Alessandrino (Str. I. 69) fece lunghissimi viaggi, come nessun altro ai suoi tempi; ebbe così occasione di conoscere i Babilonesi e gli Egizi» (Heinrich Dörrie, s.v., KP, I, p. 1478). Tuttavia, secondo il Bodnár (loc. cit.), «i grandi viaggi che si attribuiscono a Democrito non alludono ad altro che all’ampiezza enciclopedica della sua opera (cfr. 68B64 e B65 DK )».

83 Cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 9 (pp. 422, 17 - 423, 4 Mayoff IV): Certe Pythagoras, Empedocles, Democritus, Plato ad hanc discendam navigavereexiliis verius quam peregrinationibus susceptis, hanc reversi praedicavere, hanc in arcanis habuere. (An, B, BT, C, G, R, S, T)

84 A proposito di Zalmoxide, Alan H. Griffiths scrive: «Secondo Erodoto (4. 94-6), un dio dei Geti della Tracia (‘chiamato anche Gebeleizis’) che prometteva immortalità ai suoi devoti [...]. Ne viene offerta anche una versione evemeristica alternativa, secondo cui era un ciarlatano che aveva introdotto idee tratte da Pitagora, di cui era stato schiavo» (s.v., OCD, p. 1633). Secondo Alfred Croiset: «Zalmoxide (o Zamolxide) era un dio trace sul quale Erodoto riporta una leggenda bizzarra, in onore tra i Greci del Ponto (V, 97) [sic]; essi narravano che Zalmoxide, prima di essere un dio, era stato un uomo, schiavo e discepolo di Pitagora, e che era diventato in seguito il legislatore dei Traci. Ciò significa, senza dubbio, che i greci del Ponto, ritrovando tra i Traci certe pratiche o leggende analoghe a quelle dei pitagorici, le spiegavano con questo racconto» (Platon, Œuvres complètes, t. II, 2. ed., Paris, Les Belles Lettres, 1949, p. 56, nota 2). Più diffusamente, il Dodds osserva: «Sappiamo che Pitagora fondò una specie di ordine religioso, una comunità di uomini e donne la cui regola di vita era determinata dall’aspettativa di vite future. Probabilmente c’erano dei precedenti anche per questo: possiamo ricordare il trace Zalmoxide in Erodoto, che riuniva ‘i cittadini migliori’ e annunciava loro, non che l’anima è immortale, ma che essi e i loro discendenti sarebbero vissuti in eterno – si trattava evidentemente di persone elette, una specie di élite spirituale. Che ci fosse qualche analogia tra Zalmoxide e Pitagora deve avere colpito i coloni greci in Tracia, da cui Erodoto apprese la storia, perché essi fecero di Zalmoxide lo schiavo di Pitagora. La cosa era assurda, come Erodoto comprese: il vero Zalmoxide era un demone, probabilmente uno sciamano mitico del lontano passato. Ma l’analogia non era così assurda: non aveva forse Pitagora promesso ai suoi seguaci che avrebbero vissuto un’altra vita e che sarebbero diventati se non altro dei demoni, se non proprio degli dei?» (The Greeks and the Irrational, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1951, p. 141). Cfr. Herodotus, Historiae, IV. 94. 1 (p. 403, 17 - 404, 2 Rosén I): hoi de Getai [...] Thrêikon eontes andreiotatoi kai dikaiotatoi [...] athanatizousi de tonde ton tropon: oute apothnêiskein heôutous nomizousi ienai te ton apollumenon para Salmoxin daimona («i Geti [...] i più valorosi e i più giusti dei Traci [...] si ritengono immortali in questo senso: non credono di morire, ma che chi muore vada presso Salmoxis, un semidio», IV. 94. 1, p. 109 Medaglia-Fraschetti); ibid., IV. 95. 1-2 (p. 404, 13-17 Rosén I): hôs de egô punthanomai tôn ton Hellêsponton kai Ponton oikeontôn Hellênôn, ton Salmoxin touton eonta anthrôpon douleusai en Samôi (douleusai de Puthagorêi tôi Mnêsarchou), entheuten de auton genomenon eleutheron chrêmata ktêsasthai suchna, ktêsamenon de apelthein es tên heôutou («come ho saputo dai Greci che abitano l’Ellesponto e il Ponto, questo Salmoxis era un uomo e fu schiavo a Samo: schiavo di Pitagora, figlio di Mnesarco. Poi, divenuto libero, si procurò grandi beni e, dopo esserseli procurati, ritornò nella sua terra», IV. 95. 1-2, p. 111 Medaglia-Fraschetti); ibid., IV. 96. 1 (p. 405, 13-14 Rosén I): dokeô de polloisi etesi proteron ton Salmoxin touton genesthai Puthagoreô («ritengo però che Salmoxis visse molti anni prima di Pitagora», IV. 96. 1, p. 111 Medaglia-Fraschetti). (An, BT) Zalmoxide è citato in un noto passo del Carmide di Platone, 156 d - 158 c (cfr. infra, § 37: 240), (An, B, BT, C, G, K, M, P, R, S, T) da cui Apuleio riprende una frase in Apologia , XXVI. 4-5, (pp. 32-33 Vallette): idem Plato in alia sermocinatione de Zalmoxi quodam Thraci generis, sed eiusdem artis viro, ita scrpitum reliquit: tas de epôidas einai tous logous tous kalous [cfr. Plato, Charmides, 157 a. Quod si ita est, cur mihi nosse non liceat vel Zalmoxi bona verba vel Zoroastri sacerdotia? (cfr. supra, § 37: 231, nota 75). (An, BT, T) Possono aggiungersi, inoltre, le testimonianze seguenti: Diodorus Siculus, Bibliotheca historica I. 94. 2 (p.173, 7-12 Bertrac): para men gar tois Arianois Zathraustên historousi ton agathon daimona prospoiêsasthai tous nomous autôi didounai, para de tois onomazomenois Getais tois apathanatizousi Zalmoxin hôsautôs tên koinên Hestian, para de tois Ioudaiois Môïsên ton Iaô epikaloumenon theon [«si tramanda così che tra gli Ariani Zathrauste pretendeva che lo Spirito benigno gli avesse dato le sue leggi; presso quelli che vengono chiamati Geti e che si credono immortali, Zalmoxide affermò la stessa cosa della dea Estia, che a lui era associata; e presso i Giudei, Mosé attribui le sue leggi al dio che è invocato come Iao»], dove la «pronuncia» del nome Iao «sembra riflettere una forma ebraica Yahu; cfr. Salmi 68. 4: ‘il suo nome è Jah.’» (C.H. Oldfather, in Diodorus of Sicily, The Library of History, I, London, Heinemann, 1960, p. 321, nota 2). Su ‘Zathrauste,’ o Zarathustra, v. infra, § 37: 238, nota 84. (An) Strabo, Geographica, VII. 3. 5: legetai gar tina tôn Getôn, onoma Zamolxin, douleusai Puthagorai, kai tina tôn ouraniôn par’ekeinou mathein, ta de kai par’Aiguptiôn, planêthenta kai mechri deuro [«si dice che ci fosse un Geto, di nome Zamolxide, che fu come schiavo al servizio di Pitagora, da cui ricevette a voce certe conoscenze riguardanti i corpi celesti; ne ebbe delle altre dagli Egizi, presso i quali i casi della vita lo avevano ugualmente condotto»]. (An)  Strabone racconta anche altri episodi della vita di Zamolxide (o Zalmoxide), ma «è singolare che non ricordi quello che sembra essere stato uno degli elementi più caratteristici delle credenze che lo riguardavano, cioè che conferiva l’immortalità, aspetto che avvicina il culto da lui instaurato ai Misteri greci ed ellenistici» (Raoul Baladié, in Strabon, Géographie, IV, Paris, Les Belles Lettres, 1989, p. 189, nota 3 di p. 83). Clemens Alexandrinus, Stromata, IV. viii. 57. 2 (p. 274, 21-23 Stählin-Früchtel I): Getai de ethnos barbaron ouk ageuston philosophias presbeutên hairountai pros Zamolxin hêrôa kat’etos. ho de Zamolxis ên tôn Puthagorou gnôrimôn [«I Geti, popolo barbaro digiuno di filosofia, si procurano come messaggero anno per anno l’eroe Zalmoxide. Zalmoxide era un familiare di Pitagora»]. (An) Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, VIII. 2 ( p. 393, 12-14 Long II): esche [...] kai doulon Zamolxin, hôi Getai thuousi, Kronon nomizontes, hôs phêsin Hêrodotos (iv 95 sq.) («ebbe [...] inoltre uno schiavo Zamolsi, cui i Geti sacrificano, ritenendolo Crono, come dice Erodoto», VIII. 2,  p. 321 Gigante II). (BT) Iamblichus, De vita Pythagorica, 104 (p. 60, 1-9 Deubner): kai gar hoi ek tou didaskaleiou toutou, malista de hoi palaiotatoi kai autôi sugchronisantes kai mathêteusantes tôi Pithagorai presbutêi neoi, Philolaos te kai Eurutos kai Charôndas kai Zaleukos kai Brusôn, Archutas te ho presbuteros kai Aristaios kai Lusis kai Empedoklês kai Zalmoxis kai Epimenidês kai Milôn, Leukippos te kai Alkmaiôn kai Hippasos kai Thumaridas kai hoi kat’autous hapantes, plêthos ellogimôn kai huperphuôn andrôn [«e infatti coloro che erano di questa scuola, specialmente la generazione più antica, a lui contemporanea, ed erano giovani allievi quando Pitagora era vecchio (sono): Filolao, Eurito, Caronda, Zaleuco, Brisone, Archita il vecchio, Aristeo, Liside, Empedocle, Zalmoxide, Epimenide, Milone, Leucippo, Alcmeone, Ippaso, Timarida, e tutti quelli a loro associati, un gran numero di uomini eloquenti e straordinari»]; ibid., 173 (p. 97, 7-10 Deubner): Zalmoxis gar Thraix ôn kai Puthagorou doulos genomenos kai tôn logôn tôn Puthagorou diakousas, aphetheis eleutheros kai paragenomenos pros tous Getas, tous te nomous autois ethêke [«infatti Zalmoxide, un trace già schiavo di Pitagora, che ne padroneggiava gli insegnamenti, una volta liberato e ritornato presso i Geti, stabilì per loro le leggi»]. (An) Per le altre fonti, Aldo Corcella (in Erodoto, Le storie, vol. IV, Milano, Fondazione Valla-Mondadori, 1993, p. 307) rimanda, tra l’altro, a E. Rhode, Psiche, trad. it., Bari, Laterza, 1914-16, pp. 362-69 e M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis-Khan, trad. it., Roma, Ubaldini, 1975, pp. 26-71.

85 Abari è noto per essere «sacerdote dell’Apollo Iperboreo e sciamano come Aristea di Proconneso» (Edouard des Places, in Porphyre, Vie de Pythagore, Paris, Les Belles Lettres, 1982, p. 153, nota 5 di p. 49; su Aristea, cfr. infra, § 37: 238, nota 85). Platone, nel Carmide, lo associa a Zalmoxide; cfr. Plato, Charmides, 158 b-c : ei men soi êdê parestin sôphrosunê kai ei sôphrôn hikanôs, ouden eti soi dei oute tôn Zalmoxidos oute tôn Abaridos tou Hyperboreou epôidôn [«se la temperanza è gia presente in te, come dice Crizia, e se sei abbastanza temperante, non hai nessun bisogno degli incantesimi di Zalmoxide o di Abari l’iperboreo»]. (An, B, BT, C, G, K, M, P, R, S, T) A commento del passo di Platone, Alfred Croiset rimanda alla notizia che ne dà Erodoto: «Abari è un personaggio semileggendario, una specie di taumaturgo a cui si attribuiva, tra le altre opere, un poema su Apollo presso gli Iperborei. Secondo Erodoto (IV, 36), era sacerdote di Apollo. Si raccontava che avesse viaggiato per tutta la terra senza mangiare, portando sempre con sé, in segno di devozione, una freccia che Apollo gli aveva dato» (Platon, Œuvres complètes, t. II, 2. ed., Paris, Les Belles Lettres, 1949, pp. 58-59, nota 3); cfr. Herodotus, Historiae, IV. 36. 1 (p. 372, 7-9 Rosén I): ton gar peri Abarios logon tou legomenou einai Hyperboreou ou legô [legôn, hôs ton oiston periephere kata pasan gên ouden siteomenos] («non espongo dettagliatamente il racconto su Abari che si narra fosse iperboreo, limitandomi a dire come portasse in giro per tutta la terra la sua freccia e non si nutrisse affatto», IV. 36. 1, p. 49  Medaglia-Fraschetti). (An, BT) Aldo Corcella, a sua volta, così descrive Abari nel suo commento a questo passo: «asceta e guaritore apollineo, di età incerta [...]. La sua fama si diffuse in ambito pitagorico [...] per le sue caratteristiche sciamaniche: la freccia è il simbolo del volo, e secondo altre tradizioni Abari ci volava sopra [...]. Queste caratteristiche fanno pensare a contatti con l’Eurasia centro-settentrionale [...]. Di qui la definizione di ‘iperboreo’» (in Erodoto, Le storie, IV, cit., pp. 261-62). Infatti, secondo Karl Meuli (Scythica, in Gesammelte Schriften, Basel, Schwabe, 1975, II, pp. 163-64), «la leggenda di Abari affonda pienamente le radici nelle genuine e antiche credenze religiose degli Sciti» e «anche Zalmoxide è una figura molto simile a quella di Abari, uno sciamano, o piuttosto l’archetipo mitico di uno sciamano». Ma mentre i tratti storici sono più evidenti in Zalmoxide, Abari è figura prevalentemente mitica. Così, a giudizio Alan H. Griffiths, «Erodoto si trae d’impaccio» spendendo poche parole a proposito di questo «leggendario adoratore di Apollo proveniente dalle estreme regioni settentrionali, un missionario sciamanico e guaritore simile ad Aristea»; Griffiths osserva inoltre che «la freccia era un segno dell’autorità di Apollo ed era probabilmente un rimedio per le malattie» e che «secondo tradizioni posteriori la regalò a Pitagtora» (s.v., OCD, p. 1). Ma il Dodds ricorda che nelle tradizioni elleniche anteriori, anziché portarla con sé, come nella «versione razionalizzante di Erodoto», Abari «veniva dal nord a cavallo di una freccia, come fanno ancora, a quanto pare, le anime in Siberia. Egli era così esperto nell’arte del digiuno che aveva imparato a fare a meno del tutto di alimenti umani. Bandiva le pestilenze, prediceva i terremoti, componeva versi religiosi e insegnava il culto del suo dio del nord, l’Apollo iperboreo» (The Greeks and the Irrational, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1951, p. 141 e p. 161, nota 33). Sull’Apollo iperboreo, il Dodds richiama le considerazioni di A. H. Krappe che «ha mostrato, con grande attendibilità, CPh 37 (1942) 353 ss., che le origini di questo dio debbono essere ricercate nell’Europa settentrionale: è associato con un prodotto del nord, l’ambra, e con un uccello del nord, il cigno selvatico (whooper swan) ; e il suo ‘antico giardino’ si estende al di là dei venti del nord (infatti, alla fin dei conti, l’etimologia più ovvia di ‘iperboreo’ è probabilmente quella giusta)» (pp. 161-62, nota 36). Sempre a proposito dell’Apollo iperboreo, può essere interessante ricordare ancora «che i Greci, a quanto pare, avendo udito di lui da missionari come Abari, lo identificavano con il loro Apollo (probabilmente per una rassomiglianza del nome, se Krappe ha ragione nel supporre che fosse il dio di Abalus, ‘apple island,’ la medievale Avalon), e che ne dimostravano l’identità assegnandoli un posto nella leggenda del tempio di Delo (Hdt. 4.32 sqq.)» (ibid., p. 162, nota 36). Ci troviamo qui di fronte ad un caso evidente di «traduzione interculturale»: secondo Jan Assmann, tali fenomeni erano consueti negli «antichi politeismi», dove «gli dei di religioni straniere non erano considerati falsi e fittizi, ma in molti casi divinità proprie sotto altro nome». Nelle religioni politeistiche, infatti, «i nomi degli dei di religioni diverse erano traducibili sulla base della loro equivalenza funzionale» (Mosè l’egizio, trad. it., Milano Adelphi, 2000, pp. 19-20). A rigore, quest’ipotesi renderebbe non decisiva l’interessante congettura del Krappe sulla somiglianza del nome. Tra le testimonianze più tarde, si possono ricordare inoltre le seguenti: Clemens Alexandrinus, Stromata, I. xxi. 133. 2 (p. 82, 23-28 Stählin-Früchtel I): prognôse de kai Puthagoras ho megas prosaneichen aiei Abaris te ho Huperboreios kai Aristeas ho Prokonnêsios Epimenidês te ho Krês, hostis eis Spartên aphiketo, kai Zôroastrês ho Mêdos Empedoclês te ho Akragantinos kai Phormiôn ho Lakôn, nai mên Poluaratos ho Thasios Empedotimos te ho Surakousios epi te toutois Sôkratês ho Athênaios malista [«anche Pitagora il grande faceva divinazioni e vi si sono sempre affidati Abari l’iperboreo, Aristea di Proconneso, Epimenide di Creta, chiunque sia giunto a Sparta, Zoroastro il Medo, Empedocle di Agrigento, Formione di Sparta, nonché Poliarato di Taso, Empedotimo di Siracusa, e dopo costoro soprattutto Socrate l’ateniese»]. (BT) Origenes, Contra Celsum, III. 21 (p. 228, 4-10 Koetschau I): ei de tauth’houtôs echei, pôs ouk eulogon men nomizein peri tou Iêsou, tosauta sustêsai dedunêmenou, hoti ouch’hê tuchousa theiotês ên en autôi, ouketi de oute ev tôi Prokonnêsiôi Aristeai, kan ho Apollôn auton boulêtai en theôn moirai nemein, uot’en hois exarithmeitai ho Kelsos legôn hoti ‘oudei nomizei theon Abarin ton Huperboreion, hos dunamin eiche tosênde, hôste oistôi [belei] sumpheresthai; [«di fronte a questi fatti, come non sarebbe logico pensare che Gesù, che ha potuto istituire un’opera così grande, avesse in lui una qualità divina eccezionale, ma non così Aristea di Proconneso, anche se Apollo lo vuole elevare al rango degli dei, né coloro che enumera Celso, che dice: ‘Nessuno considera come un dio Abari l’Iperboreo dotato del prodigioso potere di essere trasportato da una freccia’»]. (P) Porphyrius, Vita Pythagorae, 28 (p. 49, 22-26 des Places): to men gar hoti ton mêron chrusoun epedeixen Abaridi tôi Huperboreôi eikasanti auton Apollôna einai ton en Huperboreois, houper ên hiereus ho Abaris, bebaiounta hôs touto alêthes, tethrulêtai [«l’ostensione della sua coscia d’oro ad Abari l’Iperboreo, che aveva riconosciuto in lui l’Apollo degli Iperborei, di cui Abari era sacerdote, e che confermava la verità del fatto, è una storia continuamente ripetuta»];e 29 (p. 49, 5-8 des Places): allôs [...] men ên to epônumon [...] aithrobatês de to Abaridos, hoti ara oïstôi tou en en Huperboreois Apollônos dôrêthenti autôi epochoumenos potamous te kai pelagê kai ta abata diebainen aerobatôn tropon tina [«d’altronde  [...] il soprannome  [...] di Abari era ‘eterobate,’ perché, si dice, portato da una freccia che gli aveva donato l’Apollo Iperboreo, attraversava i fiumi, i mari, i passaggi inaccessibili viaggiando in qualche modo nell’aria»]. Il riferimento alla ‘coscia d’oro’ è verosimilmente una «reminiscenza» (John Dillon and Jackson Herschbell, in Iamblichus, On the Pythagorean Way of Life, Atlanta, Scholars Press, 1991,  p. 117, nota 4) del rito di «iniziazione di uno sciamano» (Walter Burkert, Weisheit und Wissenschaft: Studien zu Pythagoras, Philolaos und Platon, Nürnberg, Carl, 1962, p. 134; Engl. transl., Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge, Mass., Harvard Huniversity Press, 1972, pp. 159-60). (An)

86 Cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 3 (p. 420, 16-17 Mayoff IV): sine dubio illic orta in Perside a Zoroastre, ut inter auctores convenit. (C, S) Zoroastro, che fu «il creatore di quell’influentissimo sistema teologico e morale che è stato il dualismo iraniano», resta tuttavia per noi «una figura nebulosa in un passato indeterminato» (BC = Joseph Bidez [et] Franz Cumont, Les mages hellénisés: Zoroastre, Ostanès et Hystaspe d’après la tradition grècque, 2 tt., Paris, Les Belles Lettres, 1938, I, p. v). «Le notizie più antiche che ci siano trasmesse su Zoroastro, ci vengono dai primi storici greci dell’Asia Minore, in testa ai quali si colloca Xanthos il Lido, che scrisse nel secolo V, prima di Erodoto» (ibid., p. 5). Diodoro Siculo ricorda che ‘Zathrauste’ ricevette le leggi dallo ‘Spirito benigno’; cfr. Bibliotheca historica I. 94. 2, p.173, 7-9 Bertrac (v. supra, § 37: 238, nota 84), dove «Zathrauste è una forma, altrimenti sconosciuta, per Zarathustra. Ora si ammette che questo profeta visse all’inizio del secolo VI a.C. Era un iraniano del nord-est e la culla della sua predicazione fu ‘lo spazio ariano,’ durante il regno del re Vistaspa (Hystaspes per i Greci), a nord della Sogdiana (cfr. J. Varenne, Zarathustra et la tradition mazdéenne, Paris, 1966). Il termine Arianois è dunque del tutto esatto, perché questa regione non era stata ancora conquistata da Ciro e non era né meda, né persiana. Lo ‘Spirito benigno’ è Ahoura Mazda, dio della luce, che rapì Zarathustra in estasi per dettargli le sue leggi (cfr. J. Bidez - F. Cumont, Les Mages hellénisés, Paris, 1938, p. 59, n. 3» (Y. Vernière et P. Bertrac, in Diodore de Sicile, Bibliothèque historique, I, Paris, Les Belles Lettres, 1993, p. 173, nota 1). Su Ahoura-Mazda v. infra, § 37: 238, nota 86. (An) Cfr., inoltre, Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, I. Prooem. 2 ( p. 1, 14-26 Long I): apo de tôn Magôn, hôn arxai Zôroastrên ton Persên, Hermodôros men ho Platônikos en tôi Peri mathêmatôn (Zeller p. 18) phêsin eis tên Troias halôsin etê gegonenai pentakischilia («il platonico Ermodoro nel libro Delle scienze matematiche afferma che dai Magi – di cui il persiano Zoroastre fu il principe – fino alla conquista di Troia trascorsero cinquemila anni»: I. Prooem. 2, p. 3 Gigante I); ibid., I. Prooem. 8 ( p. 4, 14-26 Long I): Deinôn en têi pemptêi tôn Historiôn (FGrH 690 F 5) [...] kai methermêneuomenov phêsi ton Zôroastrên astrothutên einai: phêsi de kai ho Hermodôros (Zeller p. 18) («Dinone nel quinto libro delle Istorie [...] attesta pure l’interpretazione del nome di Zoroastre, come adoratore degli astri: questo afferma anche Ermodoro»:  I. Prooem. 8, p. 5, Gigante I). (BT)  Anche Porfirio, come Pico, riconosce il debito di Pitagora e della tradizione sapienziale nei confronti dello zoroastrismo; cfr. Vita Pythagorae, 6 (p. 38, 21-23 des Places): peri tas tôn theôn hagisteias kai ta loipa tôn peri ton bion epitêdeumatôn para tôn magôn phasi diakousai te kai labein [«quanto ai sacri riti degli dei e al resto dei precetti sulla condotta quotidiana è dai Magi, si dice, che [Pitagora] li ha uditi ed appresi»]. (An)

87 Cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 8 (p. 422,12-13 Mayoff IV): diligentiores paulo ante hunc [i.e. Osthanen]  ponunt Zoroastren alium Proconnensium. (C, S) «Si tartterebbe di Aristea di Proconneso secondo Diels, Vorsokrat., 68 [55] B 300, 13, p.217, l. 5; ma cfr. Plinius, [Naturalis historia], 30. 3 [p. 420, 17-18 Mayoff IV]: an postea et alius, non satis constat» (BC, II, p. 13, nota 18). Aristea è, «al pari di Abari e Zalmoxide, una figura sapienziale leggendaria associata col culto di Apollo, che riflette gli antichi contatti dei Grci con la cultura degli Sciti» (Alan H. Griffiths, s.v., in OCD = The Oxford Classical Dictionary, Oxford, Oxford Univ. Press, 1996, p. 159); sulla leggenda di Aristea , che «la capacità di sparire e riapparire, e la presenza contemporanea in più luoghi, accomunano [...] ad altre figure di ‘stregoni’» (Aldo Corcella, in Erodoto, Le storie, IV, cit., p. 240), cfr. Herodotus, Historiae, IV. 13-15.  

88 Cfr. Apuleius, Apologia, XXVI. 1-2 (p. 32 Vallette) : auditisne magian, qui eam temere accusatis, artem esse dis immortalibus acceptam, colendi eos ac venerandi pergnaram, piam scilicet et divini scientem, iam inde a Zoroastre et Oromaze auctoribus suis nobilem (An, B, BT, G, R, S, T). Nello zoroastrismo, Oromasio o «Ahoura-Mazda», è la divinità del Bene, «il dio supremo, onnisciente, onnipresente, assai al di sopra delle altre potenze divine; egli è, come dice un’iscrizione di Persepoli, ‘il creatore di questa terra, il creatore del cielo, il creatore dell’uomo’» (BC, I, p. v). Cfr. Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, I. Prooem. 8 ( p. 4, 5-10 Long I): Aristotelês d’en prôtôi Peri Philosophias (Rose 6) kai presbuterous einai tôn Aiguptiôn; kai duo kat’autous einai archas, agathon daimona kai kakon daimona; kai tôi men onoma einai Zeus kai Ôromasdês, tôi de Haidês kai Areimanios. Phêsi de touto kai Hermippos en tôi prôtôi Peri magôn (FHG iii. 53) kai Eudoxos en têi Periodôi (Brandes fr. 38) («Aristotele nel primo libro Della filosofia dice che i Magi sono più antichi degli Egizi e che ammettono due principi, il demone buono e il demone cattivo, di cui al primo danno i nomi di Zeus e Oromasde, al secondo i nomi di Ade e Arimanno. Questo dice anche Ermippo nel primo libro Dei Magi e Eudosso nel Giro della terra», I. Proem. 8, p. 5 Gigante I). (BT) Su Eudosso ed Ermippo, v. infra, § 38: 243, nota 96.

89 Plato, Alcibiades I, 121 e - 122 a: dis hepta de genomenon etôn ton paida paralambanousin hous ekeinoi basileious paidagôgous onomazousin; eisi de exeilegmenoi Persôn hoi aristoi doxantes en hêlikiai tettares, ho te sophôtatos, kai ho dikaiotatos kai ho sôphronestatos kai ho andreiotatos. hôn ho men mageian te didaskei tên Zôroastrou tou Hôromazou; estin de touto theôn therapeia; didaskei te kai ta basilika [«quando il fanciullo ha raggiunto quattordici anni è affidato ai cosiddetti ‘istitutori regali,’ che sono quattro persiani di età matura scelti come i migliori, cioè il più sapiente, il più giusto, il più temperante e il più coraggioso. Il primo gli insegna la scienza di magi, quella di Zoroastro il figlio di Oromaso che è il culto degli dei; e gli insegna anche l’arte di regnare»]. (An, B, BT, C, G, K, M, R, S, T) Anche l’autenticità dell’Alcibiade (cfr. supra, § 36: 222, nota 68), «detto anche il primo Alcibiade, per distinguerlo dal dialogo sulla preghiera o secondo Alcibiade [...] è stata contestata soprattutto dalla critica tedesca», ma secondo Maurice Croiset «essa si fonda, come le è capitato fin troppo spesso, su costruzioni altrettanto illusorie, quanto in apparenza ingegnose» (in Platon, Œuvres complètes, t. I, Paris, Les Belles Lettres, 1920, p. 49). Il passo di Platone è citato da Apuleio in un luogo conosciuto con tutta probabilità da Pico; cfr. supra, § 37: 231, nota 75, e  Apologia, XXV. 10-11 (pp. 31-32 Vallette): magia id est quod Plato interpretatur, cum commemorat quibusnam disciplinis puerum regno adulescentem Persae imbuant – verba ipsa divini viri memini [...], a cui Apuleio fa seguire le “parole stesse”del filosofo.

90 Plato, Charmides, 156 c - 157 a: ek dê toutou tou logou diaitais epi pan to sôma trepomenoi meta tou holou to meros epicheirousin therapeuein te kai iasthai [...]. elegen de ho Thraix houtos hoti tauta men  [iatroi] hoi Hellênes, ha nundê egô elegon, kalôs legoien: alla Zalmoxis, ephê, legei ho hêmeteros basileus, theos ôn, hoti hôsper ophthalmous aneu kephalês ou dei epicheirein iasthai oude kephalên aneu sômatos, houtôs oude sôma aneu psuchês [...]. therapeusthai de tên psuchên ephê, ô makarie, epôidais tisin; tas d’epôidas tautas tous logous einai tous kalous; ek de tôn toioutôn logôn en tais psuchais sôphrosunên eggignesthai, hês eggenomenês kai parousês hraidion êdê einai tên hugieian kai têi kephalêi kai tôi allôi sômati porizein [«partendo da questo principio, applicano il loro regime al corpo intero ed è curando il tutto che cercano di curare e di guarire la parte malata [...]. Questo Trace mi disse che i [medici] greci avevano ragione nel consigliare quello che ho appena ricordato: ‘ma Zalmoxide,’ aggiunse, ‘il nostro re, che è un dio, afferma che se gli occhi non possono essere guariti indipendentemente dalla testa, né la testa indipendentemente dal corpo, il corpo a sua volta non può essere guarito che insieme all’anima’ [...]. ‘E il rimedio dell’anima,’ disse, ‘mio caro amico, sono certi incantesimi. Essi consistono nei bei discorsi che fanno nascere nell’anima la temperanza; e quand’essa si genera nell’anima e l’aiuta, è facile risanare la testa e il resto del corpo’»]. (An, B, BT, C, G, K, M, P, R, S, T) Questo passo è ripreso dal Ficino in modo «pressoché letterale» ( Michele Schiavone, in Marsilio Ficino, Teologia platonica, 2 voll. Bologna, Zanichelli, 1965, p. 193, nota 2); cfr. Marsilius Ficinus, Platonica theologia de immortalitate animorum, XIII. 1 (pp. 198-99 Marcel II ): Scribit et Charmide Magos illos animae corporisque medicos, Zalmoxidis Zoroastrique spectatores arbitrari omnia corporis tum bona tum mala ab anima fluere in ipsum corpus, quemadmodum oculorum qualitas fluit a cerebro, cerebri qualitas a toto corpore. Atque ut impossibile est oculos curari, nisi corpus totum, ita corpus totum, nisi anima bene valeat, non posse bene valere. Valetudinem vero animae curari Apollinis incantationibus quibusdam, id est philosophicis rationibus. Socrates praeterea narravit vulgatum esse apud Thraces eos medicos tali quadam curatione nonnullos homines servare immortales consuevisse. Tantum est animae in corpus imperium, tanta potestas. Magica haec opinio videtur cum illa Hebraeorum christianorumque sententia consentire: Adae primi parentis animo prius quidem sano sana fuisse omnia; deinde vero infirmo infirma omnia evasisse. (BT, T) Anche Apuleio riporta una frase del passo di Platone (cfr. Apologia, XXVI. 4, p. 32 Vallette: tas de epôidas einai tous logous tous kalous) in un luogo molto probabilmente familiare a Pico (cfr. supra, § 37: 231, nota 75).

91 Cfr. Apuleius, Apologia, XC. 6 (p. 107 Vallette) : si quamlibet modicum emolumentum probaveritis, ego ille sim Carmendas vel Damigeron vel † his † Moses vel I[oh]annes vel Apollobex vel ipse Dardanus vel quicumque alius post Zoroastren et Hostanen inter magos celebratus est. (An, B, BT, C, R, S, T)  Secondo il Reich, il Charondas citato da Pico non sarebbe altro che il Carmendas del testo di Apuleio che in questo punto risulta, inoltre, molto corrotto; egli  osserva che «entrambi i mss. della Biblioteca Laurenziana riportano l’abbreviatura carm^das, che spega la forma ‘errata’ del Pico». A suo giudizio, quindi, «Carondas significa, come risulta dalla testimonianza di Apuleio, il mago Carmendas, il cui nome Plinio (Nat. hist. 30, 5, p. 421 Mayoff IV) tramanda più correttamente come Tarmoendas»; Plinio «lo annovera tra i maghi quorum nulla extant monumenta» (p. 72, nota 83).  Ma «anche Tarmoendas è nominato solo una volta da Plinio» e secondo l’interessante congettura di Adam Abt «per come il nome è riportato nel codice, viene fatto di intendere a prima vista» il nome Carmendas «come un nome retorico: qui carmen dat» (Die Apologie des Apuleius von Madaura und die antike Zauberei, Gießen, Töpelmann, 1908, p. 319). Anche secondo Butler e Owen (Apulei Apologia sive Pro se de magia, Oxford, 1914, pp. 162-63) il nome Carmendas «non sarebbe un nome innaturale per un mago, qui carmen dat» e come fa osservare Vincent Hunink «in questa forma il nome avrebbe potuto benissimo essere quello di qualunque mago di una certa importanza» (Apuleius of Madaura Pro se de magia, 2 vols., Amsterdam, Gieben, 1997, II, p. 223). Cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 5 (p. 421, 9-12 Mayoff IV): quotus enim quisque hominum auditu saltem cognitos habet, qui soli nominantur, Apusorum et Zaratum Medos Babyloniosque Marmarum et Arabantiphocum aut Assyrium Tarmoendam, quorum nulla extant monumenta? Tuttavia, Giamblico annovera Charondas tra i primi discepoli di Pitagora (cfr. supra, §  37: 238, nota  82)

92 Damigeron è il «presunto autore» (Chritian Hünemörder, s.v. Lithika, DNP, VII, p. 354) di «uno scritto di origine greca (II sec. d. C.) sulle proprietà delle pietre», il cui contenuto è simile a quello dello Ps.-Zoroastro usato da Plinio (Nat. hist. 37. 139-185). Sul trattato di Damigeron «sembra fondarsi» (Lynn Thorndike, A History of Magic and Experimental Science, 8 vols., New York, Columbia Univ. Press, 1923-58, I, p. 777, nota 2) anche un «poema orfico» (cfr. ibid., p. 463, nota 7), appartenente al genere dei lithika, o lapidaria, «libri in cui sono raccolte informazioni mineralogiche, insieme con notizie su presunte proprietà medico-magiche delle pietre preziose» (Hünemörder, Lithika). Il trattato di Damigeron «è secondo Valentin Rose la fonte greca dei lapidari latini di ‘Euax’ e di Marbodio» (Thorndike, History of Magic, p. 463, nota 7). Sotto il nome mitico di Euax, rex Arabum, si cela un autore cristiano «del tempo dello Ps.-Apuleio (sec. V)» (M. Wellmann, s.v., in RE = Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaften, Stuttgart-Munchen, Druckenmüller, 1893-1978, XI, pp.849-50) e il poema di Marbodio, morto vescovo di Rennes nel 1123, «fa parte delle più famose e diffuse opere della letteratura medievale» (Valentin Rose, ‘Damigeron De lapidibus,’ in Hermes, IX, 1875, p. 471). «Una figura analoga» è il Damigeron citato come fonte nei Geoponica, antologia di testi botanici greci (M. Wellman, s.v., RE, IV.2, 2055-56). «Il nome [di Damigeron] appare in una lista di maghi», oltre che in Apuleio, anche in Arnobio e Tertulliano (Butler and Owen, Apulei Apologia, pp. 162-63): cfr. Arnobius, Adversus nationes, I. 52. 1 (p. 178 Le Bonniec): Age nunc veniat, quaeso, per igneam zonam magus interiore ab orbe Zoroastres, Hermippo ut adsentiamur auctori, Bactrianus et ille conveniat, cuius Ctesias res gestas historiarum exponit in primo, Armenius, Zostriani nepos et familiaris Pamphylius Cyri, Apollonius, Damigero et Dardanus, Belus Iulianus et Baebulus et si quis est alius qui principatum et nomen fertur in talibus habuisse prestigiis; e Tertullianus, De anima, 57. 1 (p. 76, 11-14 Waszink) : Aut optimum est hic retineri secundum ahoros aut pessimum secundum biaeothanatos, ut ipsi iam vocabulis utar quibus autrix opinionum istarum magia sonat, Oshanes et Typhon et Dardanus et Damigeron et Berenice. (An, B, BT, C, M, G, R, S, T)

93 Apollonio è «il celebre Apollonio di Thyana, di cui l’ateniese Filostrato scrisse una biografia dedicata all’imperatrice Giulia (prima del 217, sua data di morte). In questo testo, che ancora possediamo, il taumaturgo neopitagorico appare agli occhi di certi pagani come ‘un’incarnazione divina, che si osava paragonare a Gesù,’ [Ernest] Renan, Les évangiles [et la seconde génération chretienne, in Œvres complètes, Paris, Calmann-Lévy, 1952, V, p. 281], citato da P. de Labriolle, La réaction paîenne,  3.a ed., Paris, 1942, p. 175» (Henri Le Bonniec, in Arnobe, Contre les gentils, Paris, Les Belles Lettres, 1982, p. 354). Apollonio compare nella lista di Arnobio, mentre l’Apollobex citato nella lista di Apuleio «è senza dubbio lo stesso Apollobeches nominato da Plinio XXX 9» (Adam Abt, Die Apologie des Apuleius von Madaura, cit., p. 319); cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 9 (p. 423, 4-6 Mayoff IV): Democritus Apollobechen Coptiten et Dardanum e Phoenice inlustravit voluminibus Dardani in sepulchrum eius petitis, suis vero ex disciplina eorum ediditis. Secondo Bidez e Cumont, Apollobex è forse identificabile col Pebechios che compare in «diverse compilazioni alchemiche sopravvissute in siriaco o in arabo» (BC, I, p. 212 e  fr. A 16, II, pp. 336 ss), testi che confermerebbero un estratto di Psello di recente scoperta (cfr. Psellus, estratto dal cod. Bodleian. Arch. Seld. B 18, sec. XVI, f. 192v, ed. Catal. man. alchim. grecs, t. VI, 1928, p. 44 = fr. III. A 1, BC, II, pp. 308-09).

94 «Sotto il nome di Hostanes, oppure Ostanes, circolavano numerosi scritti magici, che si richiamavano a Zarathustra [Zoroastro]» (R, p. 72, nota 83); «a lui fu attribuito l’oktateuchos, libro di magia diffuso nei primi secoli cristiani» (Michele Pellegrino, in M. Minucii Felicis Octavius, SEI, Torino, 1967, p. 203, nota 11); cfr. Eusebius, Praeparatio Evangelica, I. 10. 52, p. 54.1-2 Mras-des Places: ta d’auta kai Ostanês phêsi [...] en têi epigraphomenêi Ochtateuchôi [«Anche Ostane dice le stesse cose [...] nell’opera intitolata Octateuco»]. Ostane è citato più volte da Plinio: cfr. Naturalis historia, 28. 6, 69 e 256; 30. 8, 11 e 14; si noti qui, in particolare, che secondo Plinio anche Ostane distingueva diverse forme di magia: Ut narravit Osthanes, species eius plures sunt (30. 14, p. 424, 17-18 Mayoff IV). Il Suda parla di una «confraternita» di magi chiamati Ostanai (Butler and Owen, Apulei Apologia, pp. 162-63); cfr. Suidas, Lexikon, O 710 (p. 570, 7-8 10 Adler III): Ostanai: houtoi prôiên para Persais Magoi elegonto, kata diadochên Ostanai, che il Bernhardy (Suidae Lexicon: Graece et Latinae, recensuit Godofredus Bernhardy, 2 voll., Halle, Schwetschki, Halle/Saale, 1843, I, pp. 1094-96) così rende: Ostanai: Sic olim apud Persas Magi vocabuntur, qui Zoroastri successerunt. Il riferimento a Zoroastro è desunto da Diogene Laerzio, a cui chiaramente si riferisce il compilatore; cfr. Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, I. Prooem. 2 ( p. 1, 17-20 Long I): Xanthos de ho Ludos [...] phêsi [...] met’ auton [Zôroastrên] gegonenai pollous tinas Magous kata diadochên, Ostanas kai Astrampsuchous kai Gôbruas kai Pazatas («Santo di Lidia afferma [...] che a lui [Zoroastro] successero molti altri Magi dai nomi di Ostane, Astrampsico, Gobria, e Pazata», trad. Marcello Gigante, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, cit., I, p. 3). Stando a questa testimonianza, dunque, Ostane può essere considerato «il più famoso» tra i magi «eredi del sapere» di Zoroastro (BC, Joseph Bidez [et] Franz Cumont, Les mages hellénisés: Zoroastre, Ostanès et Hystaspe d’après la tradition grècque, 2 t., Paris, Les Belles Lettres, 1938, I, p. vi). Inoltre, «si pensava che Democrito quando visitò Mendes [città nella parte nord-occidentale del delta del Nilo, chiamata così dal nome della divinità principale che vi era venerata] fosse stato allievo di Ostane, il sapiente persiano divenuto leggendario , a cui si attribuiva un intero corpus di dottrine mediche e magiche, DK ii, 210 ss» (Molly Whittaker, in Tatianus, Oratio ad Graecos, Oxford, Clarendon Press, 1982, p. 35, nota a). Cfr. Tatianus, Oratio ad Graecos, 17. 1 (p. 35 Whittaker) : ho [Dêmokritos] ton magon Ostanên kauchômenos en hêmerai sunteleias puros aiôniou borai paradothêsetai [Democrito «che fa un gran parlare del mago Ostane verrà dato in pasto al fuoco eterno nel giorno del compimento»]. Ma «i grandi viaggi che si attribuiscono a Democrito non si riferiscono a nient’altro che all’ampiezza enciclopedica della sua opera (cfr. 68B64 e B65 DK )» (István Bodnár, s.v., in NP = Der Neue Pauli: Enziklopädie der Antike, Stuttgart, Metzler, 1996-, III, col. 455). Riferimenti ad Ostane si ritrovano in numerose altre fonti: cfr. Minucius Felix, Octavius, 26. 10 (p. 25, 20-22 Kytzler): eorum magorum et eloquio et negotio primus Hostanes et verum deum merita maiestatem prosequitur et angelos, id est ministros et nuntios, dei sedem tueri eiusque venerationi novit adsistere. Il passo di Minucio Felice è ripreso da Cipriano, Quod idola dii non sint, 6 (p. 24 Hartel I): quorum tamen praecipuus Ostanes et formam veri dei negat conspici posse et angelos veros sedi eius dicit adsistere; a sua volta citato da Agostino: De baptismo, VI. 44. 87 (p. 340, 18-19 Petschenig): Nam cum de Magis loqueretur: ‘quorum tamen, inquit, praecipuus Ostanes [...];  che Ostane fosse considerato il primo tra i magi è confermato dalla seguente testimonianza di Porfirio, circa un oracolo di Apollo (De philosophia ex oraculus haurienda, pp. 138-39 Wolff), ripresa in seguito da Eusebio, Praeparatio Evangelica, V. 14. 1, p. 54.1-2 Mras-des Places: kai palin en chrêsmois ephê ton Apollôna eipein: ‘klêizein Hermeiên êd’Êelion kata tauta / hêmerêi Êeliou Mênên d’hote têsde pareiê, /  êde Kronon kai Hrean êd’hexeiês Aphroditên / klêsesin aphthegktois, has eure magôn och’aristos, / tês heptaphthoggou basileus, hon pantes isasin;’ ‘Ostanên legeis’ eipontôn enêgage: ‘kai sphodra; kai kath’ekaston aei theon heptaki phônein’ [Porfirio «dice che Apollo parla di nuovo nell’oracolo seguente: ‘Bisogna invocare Ermete e il Sole secondo gli stessi riti / il giorno del Sole, e la Luna quando è il suo giorno / poi Crono e Rea e in seguito Afrodite / con delle invocazioni salmodiate sordamente; è il mago più grande di tutti che le ha inventate / il re della lira a sette note, che tutti conoscono;’ e a chi gli diceva ‘È di Ostane che parli,’ replicava: ‘Sì, esattamente; e bisogna sempre invocare gli dei sette volte ciascuno’»]. Ostane compare anche in uno scritto gnostico citato da Ippolito, dove si parla di certe potenze divine e di uomini dotati di facoltà particolari, generati a loro immagine. Ostane è compreso «in un gruppo di magi babilonesi ed egiziani la cui natura sarebbe stata formata ad immagine del dio della fertilità» (Karl Preisendanz, s.v., RE, XVIII.2, 1625); cfr. Hippolytus, Refutatio omnium haeresium, V. 14. 8 (p. 180, 43-44 Marcovich): hou kat’eikona egenonto Boumegas, Ostanês Hermês Trismegistos, Kouritê(s), Petosiris, Zôidarion, Bêrôsos, Astrampsuchos, Zôroastris [«a sua immagine sono venuti al mondo Bumegas, Ostane, Ermete Trismegisto, Petosiris, Zodarion, Berossos, Astrampsuchos, Zoroastro»].

95 Dardano è «il mitico progenitore dei troiani al quale veniva attribuita l’introduzione dei misteri di Samotracia e l’invenzione della magia. [...] Secondo Fulgenzio era l’autore dei dinamera. [...] Plinio riferisce che Democrito ne recuperò gli scritti dalla tomba. Degli autori cristiani, lo ricordano Arnobio, Clemente Alessandirino ed Eusebio» (J.H. Waszink, Quinti Septimi Florentis Tertulliani De anima, Amsterdam, Meulenhoff, 1947, p. 576). Cfr. Fulgentius, Virgiliana continentia, p. 86, 2 Helm : illa quae aut Dardanus in dinameris, aut Battiades [...], aut Campester [...] cecinerunt; Arnobius, Adversus nationes, I. 52. 1 (p. 178 Le Bonniec): v. supra; Plinius, Naturalis historia, 30. 9 (p. 423, 4-6 Mayoff IV): v. supra; Clemens Alexandrinus, Proptrepticus, II. 13 (p. 12, 6-9 Stählin): oloito oun ho têsde arxas tês apatês anthrôpois, eite ho Dardanos ho Mêtros theôn katadeixas ta mustêria, eite Êetiôn ho ta Samothraikôn orgia kai teletas hupostêsamenos [«maledetto sia dunque colui che ha inaugurato tra gli uomini questa frode, sia egli Dardano che ha insegnato i misteri della Madre degli dei, oppure Eëzione [re della città di Tebe, nella Troade, e padre di Andromaca], che ha fondato le orge e le iniziazioni degli dei di Samotracia»], ripreso letteralmente in Eusebius, Praeparatio Evangelica, II. 3. 11, p. 80.8-11 Mras-des Places. «L’aggiunta di ipse» nel testo di Apuleio «indica l’importanza di Dardano» (Butler and Owen, Apulei Apologia, cit., Oxford, 1914, p. 163) e «dal [suo] nome i sortilegi sono talvolta chiamati dardaniae artes» (Victor Bétolaud, Œuvres complètes d’Apulée, Paris, Garnier, 1862, II, p. 574): cfr. Columella, De re rustica, X. 357-58 (p. 44 de Saint-Denis): At si nulla valet medicina repellere pestem / Dardanicae veniunt artes.

96 Cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 5 (p. 421, 9-12 Mayoff IV): maxime tamen mirum est, in bello Troiano tantum de arte ea silentium fuisse Homero tantumque operis ex eadem in Ulixis erroribus, adeo ut vel totum opus non aliunde constet. (An, B, BT, G, M, R, S, T)

97 «La Teologia poetica è citata nel Commento [sopra una Canzona de Amore] e in sezioni parallele dell’Oratio e dell’Apologia (Opera,  I, pp. 121 e 327; p. 150 Garin I). Restano testimonianze sparse che permetterebbero una ricostruzione dettagliata dei metodi di Pico nella sua Teologia poetica, che diversamente da precedenti opere rinascimentali dello stesso genere (come la Genealogia deorum del Boccaccio) era motivata da scopi eminentemente sistematici» (F, p. 70, nota 35). Nel Commento,  «dopo avere tratteggiato la sua lettura allegorica del mito di Alceste e di Orfeo, che era diretta polemicamente al commento di Ficino al Simposio [...] Pico promette di fornire un’interpretazione più completa di questo mito ‘nel commento nostro sopra ’l Convivio e nella nostra poetica teologia [Commento particulare (l. III ), stanza IV, p. 556 Garin]’. I problemi di Pico a proposito delle novecento tesi lo costrinsero ad abbandonare la stesura di queste due opere, che rientravano nel più ampio progetto della sua polemica col Ficino» (ibid., p. 69, nota 34). Nella Teologia poetica Pico intendeva sostenere «che dovunque, nei miti pagani sono nascoste verità cristiane» (ibid., p. 142). Si trattava di un’applicazione del principio neoplatonico omnia sunt in omnibus modo suo, già usato da Proclo nel tentativo «di conciliare testi inconciliabili» (E. R. Dodds, Commentary, in Proclus, The Elements of Theology, Oxford, Clarendon Press, 1933, p. 267) «riferendo affermazioni contraddittorie riguardanti divinità, simboli mitopoietici, o concetti filosofici, a diversi piani di realtà» (F, p. 87). Secondo il Dodds, Proclo crede «che il compito specifico del filosofo platonico sia l’esatta classificazione delle divinità», un compito che comportava «la suddivisione di ogni dio in una serie di forze progressivamente più deboli, in modo tale che Zeus, per esempio, verrebbe a presentarsi come cinque diversi dei, ciascuno dei quali simboleggia il principio ‘gioviale’ su diversi piani di realtà» (Dodds, Commentary, pp. 259-60); e Pico «pensava di fare ampio uso di questa parte del sistema di Proclo nella sua progettata Teologia poetica» (F, p. 87). Secondo Boulnois e Tognon, in quest’opera mai scritta, Pico «doveva riunire tutte le indicazioni metodologiche necessarie all’esegesi dei testi letterari e avrebbe spiegato, grazie a numerosi esempi, come leggere i testi della tradizione più antica, sapendo che per gli antichi le cose divine dovevano essere ricoperte dal velo della narrazione mitica e della finzione poetica. Cfr. il Commento alla Canzone d’amore, ed. Garin, I, p. 581». (BT, p. 59, n. 24). Queste le parole stesse di Pico: Commento sopra una canzona de amore composta da Girolamo Benivieni, Commento particulare, Stanza IV, p. 556 Garin (III. 8 Giuntina): «Il quale senso benché sia sottile e alto, nondimeno è alle cose tanto conforme che quasi maraviglia mi pare che e Marsilio e ogni altro, preso dalle parole di Platone, non l’abbia inteso; e testimone me n’è la coscienza mia, che la prima volta che mai el Simposio lessi, non prima ebbi finito di leggere le parole sue in questo loco, che nella mente questa verità mi apparve, la quale etiam nel commento nostro sopra ‘l Convivio e nella nostra Poetica teologia più diffusamente esplicheremo»; (An) ibid., Commento particulare, Stanza ultima, p. 581 Garin (III. 11 Giuntina ): «Quanto fussi el medesimo stilo da’ Pitagorici osservato si vede per la epistola di Liside ad Ipparco, né per altra ragione gli Egizii in tutti e’ loro templi aveano sculpte le Sfinge, se non per dichiarare doversi le cose divine, quando pure si scrivano, sotto enigmatici velamenti e poetica dissimulazione coprire, come el Poeta nostro nella presente canzona avere fatto secondo le forze nostre avemo dichiarato, e dagli altri poeti latini e greci nel libro della nostra Poetica teologia dichiareremo». (An, BT)

98 Cfr. Plinius, Naturalis historia, 30. 3-4 (p. 420, 18-22 Mayoff IV): Eudoxus, qui inter sapientiae sectas clarissimam utilissimamque eam intelligi voluit, Zoroastren hunc sex milibus annorum ante Platonis mortem fuisse prodidit; sic et Aristoteles. Hermippus, qui de tota ea arte diligentissime scripsit et viciens milia versuum a Zoroastre condita indicibus quoque voluminum eius positis explanavit, praeceptorem, a quo institutum diceret, tradidit Agonacen, ipsum vero quinque milibus annorum ante Troianun bellum fuisse. (An, B, BT, G, M, R, S, T) Sulla questione, cfr. anche il passo, già citato (cfr. supra, § 37: 238, nota 86), di Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, I. Prooem. 8 ( p. 4, 5-10 Long I): Aristotelês d’en prôtôi Peri Philosophias (Rose 6) kai presbuterous einai tôn Aiguptiôn [...]. Phêsi de touto kai Hermippos en tôi prôtôi Peri magôn (FHG iii. 53) kai Eudoxos en têi Periodôi (Brandes fr. 38) («Aristotele nel primo libro Della filosofia dice che i Magi sono più antichi degli Egizi [...]. Questo dice anche Ermippo nel primo libro Dei Magi e Eudosso nel Giro della terra»). (G) Quanto ad Aristotele, il Gigante fa notare (in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 2 voll., Bari, Laterza, 1976, II, p. 458, nota 26) che «un puntuale confronto con Plinio è stato compiuto da W. Jaeger»; e questi scrive che Aristotele, «considerando la sapienza degli Egizi e la religione iranica, invece di restare perplesso di fronte alla loro incerta antichità, si sforzò di arrivare ad un computo degli anni il più preciso possibile» (Aristoteles, Berlin, Weidemann, 1923, p. 131). Eudosso (ca. 391 - ca. 338 a.C.),  fu «matematico, astronomo, geografo e filosofo associato all’Accademia di Platone e successivamente capo di una propria scuola a Cnido». Diogene Laerzio «ci dice che studiò geometria con Archita [VIII. viii. 86]» e «forse per questa ragione lo annovera tra i Pitagorici [VIII. viii. 91]» (R. M. Dancy, ECP, p. 236). G. L. Huxley sottolinea «l’importanza della dottrina delle proporzioni di Eudosso» e osserva che «essa riesce a considerare anche le quantità incommensurabili», essendo «equivalente ad una definizione rigorosa dei numeri reali» (s.v., Dictionary of Scientific Biography, IV, p. 466). Eudosso compì lunghi viaggi in Asia e in Egitto, «dove restò per un certo tempo con i sacerdoti di Eliopoli» e si dice che «la sua Oktaeteris, l’opera  sul ciclo ottennale del calendario, sia stata composta nel periodo trascorso presso di loro» (ibid.). Tuttavia, «ponendo, con perfetta cognizione di causa, il vero merito di Zoroastro nel valore morale che aveva dedotto dal suo dualismo (fr. B 2, l. 3 ss), il dotto geografo, se si prendono i testi alla lettera, avrebbe affermato che ‘la sapienza dei Magi,’ cioè quella di Zoroastro, aveva preceduto quella degli Egizi» (BC, p. 11). Secondo Henri Le Bonniec, Ermippo di Smirne (fl. III sec. a.C.), un discepolo di Callimaco che «scrisse biografie di filosofi, scrittori e legislatori», era «un compilatore appartenente alla scuola peripatetica» (in Arnobe, Contre les gentils, Paris, Les Belles Lettres, 1982, p. 353). Certamente Ermippo fu «detto “il Callimacheo” oppure “il peripatetico”», ma «in quell’epoca l’epiteto designa un erudito nel campo della letteratura o della biografia, senza comportare necessariamente una relazione con la scuola peripatetica» (Franco Montanari, s.v., NP, V, p. 439). Ermippo, che  «svolse la sua maggiore attività come raccoglitore di notizie biografiche» (Giulio Federico Pagallo, s.v., EF, II, p. 25), scrisse opere Sui sette saggi e Su Pitagora e «compose verso l’anno 200 un libro Peri Magôn che ha fornito a Plinio – attraverso Apione – e quasi nello stesso tempo a Diogene Laerzio, una serie di estratti con riferimenti bibliografici di importanza capitale. Se Ermippo ci ha trasmesso su Zoroastro e la sua opera tante indicazioni preziose, è col distacco di un raccoglitore di testi che lavorava lontano dai clamori e dalle preoccupazioni del mondo, davanti agli scaffali di libri del Museo di Alessandria. A proposito di Zoroastro, questo compilatore erudito non cerca altro che di essere il più possibile completo, preciso e obiettivo» (BC, I, p. 21-22).

99 al-Kindi (ca. 800-ca. 873) «fu il primo eminente filosofo di lingua araba» e «pare che sia stato il primo ad introdurre il curriculum di formazione filosofica della tarda grecità nel mondo mussulmano». Tale curriculum «era fondato principalmente, anche se non esclusivamente sul Corpus Aristotelicum e sui suoi commentatori peripatetici e neoplatonici»; al-Kindi «ebbe una posizione di rilievo alla corte del califfo di Baghdad» e «per circa un secolo godette reputazione di grande filosofo nella tradizione arabo-neoplatonica» (Richard Walzer, s.v., EP, IV, p. 340). Di al-Kindi vanno però ricordati qui anche gli interessi scientifici e di magia naturale, alle cui «fonti asiatiche» egli «ha ampiamente attinto, specialmente per la sua conoscenza delle cure» contro le infermità. Anche «l’opera scientifica di al-Kindi risponde alle stesse intenzioni della sua opera filosofica: riprendere e sviluppare i lavori degli antichi, anche in funzione di nuovi interessi». Dunque, al-Kindi «ha scritto “lettere” su Euclide, Archimede, Tolomeo, l’astrolabio e la medicina ippocratica», ma «ha seguito anche vie proprie, specialmente nei suoi lavori di ottica e di farmacologia» noti agli autori medievali. Lo «stesso metodo» viene seguito nel Trattato sui medicamenti composti: «gli antichi avevano studiato i gradi delle quattro qualità (caldo, freddo, secco, umido) nei medicamenti semplici; occorreva allora fare altrettanto per i medicamenti composti»; sicché «al-Kindi si sforza di esprimere matematicamente la relazione tra l’aumento del numero delle parti di ogni qualità e l’aumento dell’effetto del medicamento sull’organismo» (J. Jolivet [e] R. Rashed, s.v., EI, V, p. 125-26). «Probabilmente uno dei libri di cui non è riportato il titolo negli inventari» della biblioteca di Pico «è proprio il trattato di al-Kindi sulle Arti magiche» (Kibre, p. 93; cfr. n. 982 del catologo).

100 Interessi di magia naturale operativa ebbe anche Ruggero Bacone (1214/20-1292), «filosofo e scienziato inglese» che «studiò a Oxford e a Parigi, dove come maestro reggente fu tra i primi a fare oggetto di insegnamento i libri proibiti di Aristotele nel momento in cui ne fu annullato il bando»; in effetti «il suo interesse per la matematica e la logica, come quello per l’astrologia e l’alchimia, era puramente pratico» (Allan B. Wolter, s.v., EP, I, p. 240). Egli era tuttavia avvertito della distinzione tra le diverse forme di magia; infatti «era sua opinione che la scienza avesse a che fare con leggi naturali che potevano essere espresse o spiegate matematicamente; e quindi riteneva che la vera scienza non avesse niente a che fare con quella [forma di] magia che egli caratterizzava come una falsa metematica fondata sulla superstizione» (Georgette Sinkler, s.v., REP, I 634). Bacone «rappresentava la nuova generazione di quei maestri che si vantavano di essere puri aristotelici». Tuttavia «essi erano ancora sotto l’influenza di altre tradizioni (specialmente il neoplatonismo) che erano prevalenti in opere apocrife quali il Liber de causis e, nel caso di Bacone, il diffuso Secretum secretorum» (Wolter, ibid.), un «compendio pseudo-aristotelico del X secolo, compilato in circoli ermetici siriani aperti ad influenze persiane» (G. Keil, in LdM, VII, p. 1666). Questo scritto, che si credeva contenesse le «istruzioni esoteriche di Aristotele ad Alessandro il Grande», è «uno studio sull’arte del regnare, che oltre a raccomandare una sana filosofia pratica, fornisce molti consigli astrologici e fa riferimento alle virtù magiche delle piante e delle pietre preziose, oltre che alle proprietà occulte dei numeri». Ora, «a giudicare dalle glosse che scrisse su questo libro, sembra che Bacone fosse molto impressionato dall’idea di una scienza universale di grande portata pratica e capace di comprendere tutti i segreti della natura. Questa scienza onnicomprensiva, rivelata da Dio agli Ebrei, i quali l’avevano trasmessa attraverso i Caldei e gli Egizi ad Aristotele, era occultata in espressioni figurative ed enigmatiche, ma poteva essere riscoperta da chi fosse moralmente degno e intellettualmente capace di riceverla. Dove i pagani avevano fallito, pensava Bacone, un cristiano avrebbe potuto avere successo» (Wolter, ibid.). Ruggero Bacone, «che Pico definì magnus astrologiae patronus (v. Disputationes in astrologiam, I, Opera, 1572, pp. 419, 490), era l’autore dell’Epistola de secretis operibus artis et naturae, et de nullitate magiae» presente nella sua biblioteca (Kibre, pp. 93-94; cfr. n. 422 del catalogo).

101 L’influenza delle dottrine di magia naturale trasmesse dagli arabi è presente pure in Guglielmo «di Alvergna o di Parigi» (ca. 1180-1249), «teologo e filosofo francese» che «insegnò teologia a Parigi, dove fu consacrato vescovo». Anche Guglielmo appartiene «alla prima generazione dei maestri parigini che fecero ampiamente uso del pensiero aristotelico, islamico ed ebraico»; egli può essere considerato «il primo grande maestro della nuova età» e «il primo a sfruttare con coraggio e discernimento tutta la ricchezza speculativa del ritrovato Aristotele» (David Knowles, s.v., EP, VIII, 302-03). Tuttavia «nelle sue opere troviamo anche una nozione di esperienza decisamente non-aristotelica, che si richiama alla tradizione araba ed ebraica sulla magia e sul sapere occulto. Per lui, i veri “sperimentatori” erano coloro che praticavano la magia naturale, la cui abilità nel manipolare le forze nascoste del mondo naturale conteneva la promessa di meravigliosi risultati». Anche quest’aspetto dell’opera di Guglielmo costituisce «un tema di grande importanza per lo sviluppo del pensiero scolastico successivo, che fu ripreso con fervore da Ruggero Bacone e da molti dei cosiddetti prospettivisti» (Steven Marrone, s.v., REP, IX, 725-27). Nella biblioteca di Pico «era presente il De universo di Guglielmo d’Alvernia, dove egli tratta della magia» (Kibre, p. 93; cfr. n. 620 del catalogo). Nell’Apologia (Opera, I, p. 169), Pico fa esplicito riferimento al De universo di Guglielmo: De hac ut dixi tractat Guilielmus Parisiensis in suo de universo corporali et spirituali (Kibre, p. 93, nota 42).  

102 Cfr. Plotinus, Enneades, IV. 4 <21>. 40 (p. 136, 1-9 Henry-Schwitzer II): tas de goêteias pôs; ê  têi sumpatheiai, kai tôi pephukenai sumphônian einai homoiôn kai enantiôsin anomoiôn, kai têi tôn dunameôn tôn pollôn poikiliai eis hen zôion suntelountôn. kai gar mêdenos mêchanômenou allou polla helketai kai goêteuetai; kai hê alêthinê mageia hê en tôi panti  p h i l i a  kai to  n e i k o s  au. kai ho goês ho prôtos kai pharmakeus houtos estin, hon katanoêsantes anthrôpoi ep’allêlois chrôntai autou tois pharmakois kai tois goêteumasi [«Ma come si spiegano le operazioni magiche? Per la simpatia, e per il fatto che per natura c’è accordo tra le cose simili e disaccordo tra le cose dissimili, e per la varietà delle molteplici forze che contribuiscono insieme all’unità vivente dell’universo. Infatti molte cose sono attratte ed incantate senza che nessun altro eserciti pratiche magiche; la vera magia sono l’‘Amicizia’ e la ‘Discordia’ presenti nel Tutto. Ed è esso il primo mago e incantatore ed è avendone percezione che gli uomini usano l’uno verso l’altro i filtri e gli incantesimi che a lui solo appartengono»]. (An, B, BT, G, M, R, S, T) Cfr. Kibre: 506, «probabilmente la traduzione del Ficino»; 989, 1668. ‘Amicizia’ (Philia, o più precisamente Philotês) e ‘Discordia’ (Neikos) sono termini introdotti da Empedocle (cfr., p. es., fr. B 17, 16-20 DK = H. Diels und W. Krantz, Die Fragmente der Vorsokratiker, 6. ed., Berlin, Weidemann, 1951: tote men gar hen êuxêthê monon einai ek pleonôn, tote d’au diephu pleon ex henos einai, pur kai hudôr kai gaia kai êeros apleton hupsos, Neikos t’oulomenon dicha tôn, atalanton hapantêi, kai Philotês ev toisin, isê mêkos te platos te [«ora infatti uno cresce per essere uno da molti, ora si divide di nuovo per essere molti da uno: fuoco e acqua e terra e l’immensa altezza dell’aria, e la deprecata Discordia loro avversa, dovunque in pari misura, e l’Amicizia tra loro, di uguale larghezza e lunghezza»]; e Aristotele, Phys. VIII 1. 252 a 7: eoiken Empedoklês an eipein hôs to kratein kai kunein en merei tên Philian kai to Neikos huparchei tois pragmasin ex anagkês, êremein de ton metaxu chronon [«sembra che Empedocle abbia detto proprio questo, che alle cose tocca per necessità che l’‘Amicizia’ e la ‘Discordia’ prevalgano e ne producano a turno il movimento e di rimanere in quiete negli intervalli che separano questi stati»] ). Per l’uso del termine sumpatheia, cfr. infra, § 250. Secondo Arthur H. Armstrong, questo passo «e i capitoli seguenti mostrano chiaramente che per Plotino la magia consisteva nella manipolazione di forze naturali, attrazioni e simpatie risultanti dall’organica unità vivente dell’universo fisico» e che «il suo interesse  per essa era filosofico e non pratico» (in Plotinus, Enneads, 7 vols., Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1966-88, IV, p. 260, nota 1).  È significativo osservare che la Theologia Aristotelis, che segue in questo punto (VI. 13) il testo di Plotino, lo espande  rendendo esplicita la distinzione su cui insiste Pico: «Now the works that arise from sorcery and magic occur in two ways, either by sympathy and the concord of similar things, or by opposition and variance through thr plurality and variance of the faculties. But though they vary they complete the one living thing. Often things happen without anybody’s having performed any trick at all. The artificial magic is falsehood, for it is all mistaken and does not hit the mark. The true magic, which is not mistaken and does not play false, is the magic of the universe, which is love and mastery. The wise magician is the one who assimilates himself to the universe and practises its works in accordance with his capability, for he makes use of love in one place and makes use of mastery in another place» (VI. 13-16, p. 137 Henry-Schwyze IIr; le parti in corsivo sono le parti corrispondenti al testo greco). Cfr. anche Enneades, IV. 4 <21>. 43  (p. 144, 21-23 Henry-Schwyzer II) : ti gar mathôn tis pros allo echei; ê helkomenos ou magôn technais, alla tês phuseôs [«perché mai dunque ci protendiamo verso qualcos’altro? ebbene, non siamo attratti dalle arti dei maghi, ma da quelle della natura stessa»].

103 Cfr. Porphyrius, Vita Plotini, 10. 33-38 (p. 17 Henry-Schwitzer I) : Philothutou de gegonotos tou Ameliou kai ta hiera kata noumêniankai tas heortas ekperiionto kai pote axiountos Plôtinon sun autôi paralabein ephê: «ekeinous dei pros eme erchesthai, ouk eme pros ekeinous». Touto de ek poias dianoias houtôs emegalêgorêsen, uot’autoi suneinai dedun metha out’autov eresthai etolmêsamen [«Quando Amelio, che amava offrire sacrifici e che non perdeva un rito per la luna nuova o per le feste degli dei,  chiese una volta a Plotino di andare con lui, egli rispose: ‘Sono essi che debbono venire da me, non io che debbo andare da loro.’ Quale fosse il suo pensiero nel pronunciare parole così fiere, noi non riuscimmo a capire e non avemmo nemmeno il coraggio di chiedergli»]. (An, B, BT, G, K, M, R, S, T) Cfr. Kibre: 1668.

104 Cfr. Plinius, Naturalis historia, 20. 1 (p. 302, 14-18 Mayoff III): Pax secum in his aut bellum naturae dicetur, odia amicitiaeque rerum surdarum ac sensu carentium  et, quo magis miremur, omnia ea hominum causa. Quod Graeci sympathiam et antipathiam appellavere quibus cuncta constant; e ancora, 37. 59 (p. 406, 13-15 Mayoff V): Nunc quod totis voluminibus his docere conati sumus de discordia rerum concordiaque, quam antipathian Graeci vocavere ac sympathian. Al principio della ‘simpatia’ si richiama esplicitamente Plotino nel passo già citato (cfr. supra, § 246), che così prosegue (Enneades, IV. 4 (21), 40, p. 136, 9 - 137, 20 Henry-Schwitzer II): kai gar, hoti eran pephukasi kai ta eran poiounta helkei pros allêla, alkêi erôtikês dia goêteias technês gegenêtai, prostithentên epaphais phuseis alla allois sunagôgous kai egkeimenon echousas erôta; kai sunaptousi de allên psuchên allêi, hôsper an ei phuta diestêkota exapsamenoi pros allêla. Kai tois sch masi de proschrôntai dunameis echousi, kai hautous schêmatizontes hôdi epagousin ep’autous apsophêti dunameisen heni ontes eis hen. Epei exô ge tou pantos ei tis hupothoito ton toiouton, out’an helxein out’an katagagoi epagôgais ê katadesmois; alla nun, hoti mê hoion allachou agei, echei agein eidôs hopêi ti en tôi zôiôi pros allo agetai [«e infatti, poiché gli uomini sono per natura portati ad amare e tutte le cose che sono causa d’amore hanno potere di attrazione l’una sull’altra, è nata l’arte di provocare l’amore con la magia, con cui si accostano a diverse persone diverse sostanze magiche che al contatto le attirano insieme, poiché in esse è insita una forza d’amore; e uniscono un’anima all’altra, come se si legassero insieme delle piante separate. E usano anche certe posizioni che hanno una loro efficacia, e nel disporre se stessi in una certa posizione attirano silenziosamente delle forze su di loro, poiché si trovano all’interno di un unico organismo e operano su di un unico organismo. Infatti, se si mettesse un mago al di fuori del Tutto, egli non potrebbe usare nessun potere di attrazione o di evocazione con le sue formule o i suoi incantesimi; ma ora, poichè non opera come se fosse da qualche altra parte, può operare sui suoi soggetti, poiché sa in che modo una cosa attira l’altra nell’unità vivente del Tutto»]. L’intera formulazione di questa proposizione è chiaramente reminiscente del testo di Plotino. (An, B, BT, G, M, R, S, T)

105 Cfr. W. Pape, s.v. iugx, in Griechisch-Deutsches Handwörterbuch, 3. ed., Braunschweig, Vieweg, 1914: «il capotorto [o ballerina], un piccolo uccello, che pende il nome dal suo grido (iuzô). Legato e fatto girare su un cerchio metallico, o su una ruota, veniva considerato dalle maghe dell’ antichità come un efficace incantesimo d’amore (philtron), specialmente per riportare indietro un amante infedele». Così pure Scholia in Theocritum vetera, II. 17 (p. 274, 6-7 Wendel) : orneon Aphroditês, ho hai pharmachides sunergon echousi pros tas mageias [«l’uccello di Afrodite che secondo le streghe giova alle pratiche magiche»]. (BT, G, M, T) Secondo lo Chaignet «è l’uccello che i Romani chiamano Batticoda, seisopugis, che possiede, si dice, per sua natura erôtikên tina peithô. Per questa ragione si chiamano iugges tutte le pozioni, pharmaka, che ispirano l’amore e, metaforicamente, tutto ciò che attira e incanta, ta epagôga allôs kai charienta» (in Damascius, Problèmes et solutions touchant les premiers principes, 3 voll., Paris, Leroux , 1898, II, p. 249, nota 1). Più estesamente Suidas, Lexikon, I 759-761 (pp. 677, 20 - 678, 10 Adler II): Iügx: Êchous ê Peithous thugatêr, hieronikês kai Aphroditês; katapharmattousa de ton Dia epi toioutois apelithôthê hupo Hêras. kaleitai de hup’ eniôn kinaidion. esti de kai organion ti iügx kaloumenon, hoper eiôthasin hai pharmakides strephein, hôs katakêloumenai tous agapômenous. eti de kai orneon ti, hôi proseitai tên autên dunamin echein. hôthen desmeuousi tois trochiskois. Iügx: to orneon, to legomenon seisopugês. Iügx: to ephelkon tên dianoiian eis epithumian kai erôta. en Epigrammasi: [...] hoi de, hoti orneon estin epitêdeion pros tas tôn philtrôn kakias hên phasin Êchous einai thugatera, enioi de Peithous. [...] kai authis: toiautê tis prosên iügx Diogenous tois logois tou Kunos. Il Bernhardy (Suidae Lexicon: Graece et Latinae, recensuit Godofredus Bernhardy, 2 voll., Halle/Saale, Schwetschki, 1843, I, pp. 1094-96) così rende: Iugx . Iynx, Echus vel Suadae filia, [...] haec cum Iovem philtris ad amores pelliceret, ob eam rem ab Iunone in avem mutata est; quae a nonnullis motacilla vocatur. est etiam machina quaedam, sic appellata, quam veneficae versare solent, ut amasios ad amores pelliciant.  eodem etiam nomine appellatur avis quaedam, quae eadem vi praedita est. hinc rotulis eam alligant.  Iugx . Avis, quae vocatur motacillaIugx . Quicquid animum ad desiderium et amorem pellicit. In Epigrammate : [...] dicunt iyngem esse avem ad philtra aptam, quae Echus an Suadae filia fuerit. [...] Item : ‘Tanta suavitate Diogenes sermones audientium animos permulcebat’. Nel commento alle voci, il Bernhardy scrive: hieronikês kai Aphroditês ] Locus hic corruptissimus est, quem optime emendavit Potterus [...]. Küst. Nimis festinanter vir doctissimus. [...] Sed iam nihil mutandum esse video.  hieronikês Aphroditês est victrix in stadio Veneris. Nimirum ea est vis iuggos in amore, ut homines semper allicere et conciliare possit: de quo consulendi interpretes in Theocriti Pharmaceutriam. Iste est sensus huius loci, quem nemo intellexit. Ita locutus est Lucianus in libello de Hist. Conscrbenda: Antiochanou tou Apollônos hieronikou. Quare non est quod de huius loci emendatione amplius satagamus;  apelithôhtê ] Locus hic de mendo mihi suspectus est, scrbendumque puto apôrneôthê, i.e. in avem mutata fuit. Iyngem enim ab Iunone in avem mutata fuisse plures veterum tradiderunt, ut ex locis auctorum, quae in nota praecedenti adduximus, patet. Eandem vero in lapidem mutatam fuisse, non memini ab ullo veterum memoriae proditum esse. Küst. (La sigla Küst., usata dal Bernhardy, rimanda alle note del Kuster, nell’edizione parigina del 1700.) Il riferimento a Diogene cinico, nel Suda, è tratto da Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, VI. 76 (p. 280, 5-6 Long II): toiautê tis prosên iugx tois Diogenous logois («tale fascino esercitava Diogene con i suoi discorsi»: VI. 76, p. 230 Gigante I). Qui iugx viene usato nel suo senso traslato e sta per parole suadenti, allettamenti, o formule magiche che producono incantesimi. Cfr. ancora Suidas, Lexikon, I 758 (pp. 677, 19 Adler II) : Iugges : leptoi poroi, kai hai terpseis, che il Bernhardy rende (I, 1094) : Iugges . Tenues meatus. item illecebrae. Gustav Wolff illustra così le due accezioni del termine (in Porphyrii de philosophia ex oraculus haurienda, Berlino, Springer, 1866, p. 157, nota 2): Iynx vocabatur et turbo et rota, ad avocandos deos hominesque a sagis agitata; addebatur saepe avis cognominis, quia ‘collum circumagit in aversum’ (Plin. n. h. 11.57.107. Cf. Aristot. hist. anim. 2. 12). Transfertur vocabulum ad omnes ritus, formulasque, quibus evocabatur numen homove. È nel suo senso metaforico che iugx  viene usato nel frammento 223 degli Oracoli caldaici (p. 120 des Places), dove «le iugges svolgono un ruolo molto importante» (R, p. 74, nota 90). Gli Oracoli caldaici  (cfr. supra, § 33: 212, nota 51) sono «una raccolta di versi rivelati compilata, a ciò che si dice, nel secondo secolo d.C. Insieme con i testi orfici, i Neoplatonici li consideravano come parola divina. Quando gli Oracoli compaiono in opere filosofiche, vengono addotti a sostegno di particolari tesi cosmologiche, metafisiche o psicologiche, già espressamente formulate. [...] Gli Oracoli caldaici sono citati da tutti gli autori del tardo neoplatonismo, arrivando fino a Simplicio (sec. VI) e anche da alcuni autori cristiani. Gli Oracoli riemergono anche in fonti bizantine, per esempio in Psello (sec. XI) e Pletone (sec. XV), che li raccolse in un manoscritto intitolato Detti dei maghi zoroastriani. Infine, essi furono trasmessi al Rinascimento italiano e furono usati soprattutto da Patrizi da Cherso, da Ficino e da Pico della Mirandola» (Lucas Siorvanes, s.v., REP, II, p. 273). Ora, il frammento 223, riportato da Porfirio (De philosophia ex oraculus haurienda, pp. 157-58 Wolff), Eusebio (Praeparatio evangelica, V.8. 6, pp. 237, 18 - 238, 3 Mras-des Places I ) e Niceforo Gregora (Explicatio in librum Synesii De insomniis, 540. 7-11, p. 11, 8-12 Pietrosanti), recita: Tous men aporrêtois euruôn iugxin ap’aithrês / hrêidiôs aekontas epi chthona tênde katêges, / tous de mesous mesaitioisin epembebaôtas aêtais / nesphi puros theioio poaompheas hôsper oneirous / eiskrineis meropessin, aeikea daimonas erdôn [«Attirando gli uni dall’etere con  formule segrete, Tu li facevi discendere facilmente, loro malgrado, su questa terra; Avendo fatto venire gli altri, quelli di mezzo, posati su venti mediani, Lontano dal fuoco divino, tu li invii ai mortali come dei sogni profetici, Trattando indegnamente dei demoni»]. (BT, G, M, T) Tuttavia, secondo il des Places, proprio l’uso traslato del termine iugx, «che ricorre anche altrove (e nello stesso Psello, p. es., Expositio oraculorum chaldaicorum,  P.G., CXXII, 1133 a 9), ma è sconosciuto agli oracoli ‘autentici,’ renderebbe dubbio questo frammento» (in Oracles chaldaïques, Paris, Les Belles Lettres, 1996, p. 120, nota 1 al fr. 223). Il des Places fa qui riferimento alla parafrasi di Psello del fr. 206, energei peri ton Hekatikon strophalon [«agisce sul cerchio di Ecate»]; commentando questo frammento Psello scrive (Expositio oraculorum chaldaicorum, 1133 a 5 - b 1,  pp. 170-71 des Places): Hekatikos strophalos sphaira esti chrusê, meson sappheiron perikleiousa, dia taureiou strephomenê himantos, di’holês autês echousa charaktêras; hên dê strephontes epoiounto tas epiklêseis. Kai ta toiauta kalein eiôthasin iuggas, eite sphairikon echoien eite trigônon eite allo ti schêma. A dê donountes tous asêmous ê ktênôdeis exephônoun êchous, gelôntes kai ton aera mastizontes. Didaskei oun tên teletên energein tên krinêsin tou toioutou strophalou, hôs dunamin aporrêton echousan. Hekatikos de kaleitai hôs têi Hekatêi anakeimenos [«il cerchio di Ecate è un disco d’oro, con uno zaffiro incastonato nel mezzo, che gira per mezzo di una cinghia di pelle di toro e ha dei caratteri scritti su tutta la sua superficie; ed era girandola che si facevano le evocazioni. Questi strumenti sono solitamente chiamati iynges [íïngi], sia che abbiano forma circolare, triangolare o d’altro tipo. Facendoli girare, si emettevano grida inarticolate o bestiali, ridendo e frustando l’aria. L’oracolo dunque insegna che ciò che opera il rito è il movimento di un cerchio siffatto, in virtù della sua forza ineffabile. E si chiama ‘ecatico’ perchè è consacrato a Ecate»]. (B, BT, G, M, R, T) Il des Places osserva che «la parafrasi di Psello descrive l’oggetto e il suo carattere magico e gli assegna il nome di ‘iynx,’ [íïnge] che viene applicato anche alla formula (fr. 223, v. 1) e, tra i Caldei, a una classe di realtà trascendenti» (ibid., p. 170, nota 29). È quest’ultimo il senso assunto dal termine nei frammenti ‘autentici,’ dove a proposito delle iugges si afferma: hupokeklitai autais archikos aulôn [«sotto di loro si adagia l’orbita originaria»] (fr. 75, p. 85 des Places); pollai men dê haide epembainousi phaneinois / kosmois enthrôiskousai; en hais akrotêtes easin / treis: <puriê g’êd’aitheriê kai hulôdês> [«esse sovrintendono in gran numero ai mondi splendenti, sui quali si slanciano; tra di loro ce ne sono tre che sono le sommità, quella del fuoco, quella dell’etere e quella della materia»] (fr. 76, p. 86 des Places); (B, BT, G, M, R, T) hai ge nooumenai <ek> patrothen noeousi kai autai, / boulais aphthegktois kinoumenai hôste noêsai [«quando sono pensate dal Padre, pensano anch’esse, come mosse a pensare dai suoi voleri ineffabili»] (fr. 77, p. 86 des Places). (B, BT, G, M, R, T) Negli Oracoli caldaici , dunque, le iynges sono concepite come «potenze noetiche» (Hans Lewy, Chaldean Oracles and Theurgy, Le Caire, Institut Français d’Archéologie Orientale, 1956, p. 132), interpretabili di volta in volta come facoltà psichiche, o come potenze divine, che esercitano una «funzione di mediazione magica tra la Divinità Suprema e il teurgo invocante» (ibid., p. 250). Secondo il Lewy, infatti, «iugx è un termine applicato al disco magico fatto girare dai maghi che desiderano evocare gli dei o gli spiriti» e «anche i Caldei facevano uso di questo strumento nelle loro invocazioni»; tuttavia, «prescindendo da questo, le Iynges sono descritte negli Oracoli come entità noetiche che ‘sono pensate dal Padre,’ e che ‘pensano anch’esse, perché mosse dal Volere ineffabile,’ cioè quello del ‘Padre’ da cui discendono». Le Iynges, quindi, «sono i pensieri dell’Essere Supremo: il pensare mediante il moto circolare» (ibid., p. 132) e «oltre ad avere una funzione teurgica, hanno anche una funzione cosmica» (ibid., p. 135), in quanto divinità o «intelligenze astrali» (ibid., p. 137) che «formano una triade con gli dei connettivi [sunocheis] e gli dei teletarchi» (des Places, in Oracles chaldaïques, p. 86, nota 1 al fr. 76), il cui nome significa letteralmente “signori dell’iniziazione” (ibid. p. 198, nota 1). La processione delle iynges dal Padre, secondo la dottrina degli Oracoli caldaici, è così riassunta da Psello (Hypotyposis, 2-5, p. 198, 4-19 des Places): 2. Meth’ho [arrêton hen] patrikon tina lêrousi buthon ek triôn triadôn suykeimenon, hekastês echousês patera men prôton, deuteron de dunamin, triton de noun. 3. Meta de tauta phasin einai noêtas te kai noeras, hôn prôtên men einai tên iugga, meth’hên treis heteras patrikas kai noêtas kai aphthegktous, diairousas tous kosmous trichêi kata to empurion kai to aitheriov kai to hulaion. 4. Meta de tas iuggas prosecheis, phasin, hoi sunocheis; kai hai men iugges tas aphthegktous autois henôseis tôn pantôn huphistasin, hoi de sunocheis tas proodous tou plêthous tôn ontôn henizousi, metaxu tôn noêtôn kai tôn noerôn kentron tês amphoterôn koinônias en heautois pêxamenoi. 5. Prosecheis de tois sunocheusi tous teletarchous titheasi treis kai autous ontas: hôn ho men empurios, ho de aitherios, ho de hularchês. [«2. Dopo di lui [l’Uno ineffabile], immaginano una specie di abisso paterno, composto di tre triadi che hanno ciascuna per primo membro il Padre, per secondo la Potenza, per terzo l’Intelletto. 3. Dopo queste, dicono che ci sono delle (triadi) intelligibili e intellettuali, di cui la prima è la iynx, dopo la quale vengono altre tre (iynges) paterne, intelligibili e inesprimibili, che dividono il mondo in tre regioni: empireo, etere, materia. 4. Immediatamente dopo le iynges seguono, a quanto dicono, i connettivi; le iynges creano per loro le unioni inesprimibili di tutte le cose; i connettivi unificano le processioni della pluralità degli esseri, fissando in loro stessi, tra gli intelligibili e gli intellettuali, il centro della comunità degli dei. 5. Immediatamente dopo i connettivi mettono i teletarchi, che sono anch’essi tre e dominano il primo sull’empireo, il secondo sull’etere, il terzo sulla materia»]. (BT, G, M, T) E a proposito di questi princìpi divini Damascio (De principiis, I. 286. 8 Ruelle) si chiede: kaitoi ti poiêsomen hotan ho patrikos nous paragein legêtai tas triadikas diakosmêseis,  i u g g a s ,  s u n o c h e a s ,  t e l e t a r c h a s , tas noeras trichê diaireseis, tas kosmikas hapasas; [«Perciò che cosa faremo quando viene detto che l’intelletto paterno produce gli ordini triadici delle iynges, dei connettivi (sunocheis), e dei teletarchi, che sono tre distinzioni noetiche, tutte e tre cosmiche?»]. Quindi, secondo Antelme-Édouard Chaignet, «le iugges di Damascio e dei Caldei» non sarebbero «nient’altro che dei sistemi di idee astratte» (in Damascius, Problèmes et solutions touchant les premiers principes, cit., II, p. 250, nota). Ma, come osserva il Lewy, «poiché il mondo è retto da entità noetiche, anche i modi di comunicare con esse sono concepiti come noetici» e «per questa ragione i Caldei considerano la scienza che riguarda la conoscenza del mondo intelligibile come una scienza di primaria importanza»; dunque, «questo tema centrale della teosofia caldea era di particolare interesse per i Neoplatonici» (Chaldean Oracles, p. 165). Secondo il des Places si può dire che «il ruolo di intermediari, che Platone attribuisce ai demoni, è negli Oracoli quello delle iynges» (Oracles chaldaïques, cit., p. 137, nota 1 al fr. 78). Ponunt igitur post intelligibilem mundum in agmine deorum noêtôn kai noerôn primo loco iynges (Wilhelm Kroll, De Oraculis Chaldaicis, in Breslauer philologische Abhandlungen, VII.1 (1894), p. 39). Numerosi referimenti al ruolo di intermediazione cosmico e teurgico delle iynges , che «sono dunque delle specie di divinità nel sistema degli Oracoli caldaici» (A. J. Festugière, in Proclus, Commentaire sur la République, Paris, Vrin, 1979, p. 163, nota 3), si trovano anche in Proclo; cfr., per es., In Platonis Rem publicam commentarii, p. 212, 28 - 213, 3 Kroll II, (C) dove l’editore commenta: triadem primam noeran e Saturno Rhea Iove compositam praecedunt triades noêtai kai noerai iyngum (e Chaldaicis desumptarum ideoque xenikôn: de or. chald. 39) sunocheôn teletarcharum»; e ancora In Platonis Cratylum commentaria, p. 33 14-15 Pasquali: toiouton dê ti noein emoige dokei kai to diaporthmion onoma tôn iuggôn, ho pasas anechein legetai tas pêgas, dove diaporthmion allude al fr. 78 degli Oracoli (p. 86 des Places): diaporthmioi hestôtes [«che si comportano come traghettatori»]. (C)

106 Cfr. Horatius, Epodi, 2. 9-10 (p. 28 Mankin): adulta uitium propagine / altas maritat populos; (An) Id., Epistulae, I. 16. 3 (p. 278 Shackleton Bailey): amicta vitibus ulmo; (R) Vergilius, Georgica, 1. 2 (p. xix Mynors): ulmisque adiungere uitis; (An, BT, R) ibid., 2. 221 (p. xliii Mynors): laetis intexet uitibus ulmos; (BT, R) Id., Eclogae, II. 70 (p. 7 Clausen): semiputata tibi frondosa uitis in ulmo est; (An) Ovidius, Metamorphoses, X. 100 (p. 233 Anderson): amictae vitibus ulmi. (R) L’anonimo (An, p. 81, nota 121) osserva che «il verbo [maritare] è di Orazio, Epod. 2, 10, gli olmi della tradizione virgiliana (Georgica 1, 2; Eclogae 2, 70)»; il Rech che «l’immagine è un motivo diffuso della letteratura latina classica, cfr. p. es. Hor., ep. 1, 16, 3; Verg., georg., 1, 2 e 2, 221; Ov., met., 10, 100 et al.»; il Mankin (in Horace, Epodes, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 70) che «maritat [è] un termine tecnico (Cato, De agri cultura, 32. 2 : [arbores facito ut bene maritae sint] )»; Elisa Romano (in Q. Orazio Flacco, Le opere, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1991, vol. I. 2) ad Epod. 2. 10: «a volte anche il pioppo, oltre che il più comune olmo, viene adoperato per appoggiarvi la vite (cfr. Plin. nat. hist. 18, 200)» (p. 950);  ad Carm. II. 15. 5-6 (p. 251 Shackleton Bailey), platanusquae caelebs / evincet ulmos: «allo sterile platano si contrappone l’ulmus marita (l’epiteto è tradizionale: cfr. p. es. Quint. Inst. 8, 3, 8 sterilem platanum tonsasque myrtos quam marita ulmum... praeoptaverim?). Sulle qualità dell’olmo, buon sostegno per la vite, cfr. Varr. Rust. 1, 15)» (p. 694);  ad Carm. IV. 5. 30 (p. 120 Shackleton Bailey): vitem viduas ducit ad arbores: «cioè alberi non ancora maritati alla vite» (p. 876). 

107 Isaias, VI. 3 : plena est omnis terra gloria eius (An, B, BT, C, G, K, M, P, R, S, T); cfr. Habacuc, III. 3 : operuit caelos gloria eius, et laudis eius plena est terra (B, BT, R).