1 Secondo lo schema stabilito dallo Pseudo-Dionigi (cfr. ¶ 73 dell'Oratio) e confermato sia da San Tommaso (Summa I, q. 108, art. 6) sia da San Gregorio (In evang. II hom. 34), Pico presenta qui le tre divisioni del supremo ordine angelico: i Serafini, i Cherubini e i Troni. Questi tre tipi di angeli si distinguono però da quelli che si trovano in Heptaplus 3, 3 poiché i Serafini, i Cherubini e i Troni appartengono tutti alla classe angelica più alta, cioè a quella che gode della quiete della contemplazione e che si caratterizza da una sovrabbondanza di benevolenza. Il fatto che Pico si riferisca specificamente ai Cherubini con il termine «contemplatore» non vuol dire che i Serafini e i Troni non lo siano anche loro. Si veda San Tommaso, Summa I, q. 108, art. 5, rep. 5. Il compito che spetta all'uomo è l'emulazione degli angeli più alti (l'azione, la contemplazione, la comunione con Dio) e la dialettica è l'indispensabile passo intermedio in questo processo mistico (Bori 1996, 557). Cfr. Conclusiones 111, 132, 220, 357, 640, 710, 711. Secondo uno studioso (Farmer 1998, 346-351), Pico sovrappose intenzionalmente le sefirot cabalistiche sulla gerarchia celestiale illustrata dallo Pseudo-Dionigi perché ognuno di questi tre tipi di angeli si identificasse con una sefirah specifica: i Serafini con Hesed; i Troni con Din; i Cherubini con Binah.

2 Pico stesso spiega questa frase insolita in cui Dio «cova» in Heptaplus 2, 3: «Super hunc (i.e. il cielo cristallino delle acque superiori) ferebatur, aut ut veritas habet hebraica, et Syrus Effren transtulit, incubabat huic Spiritus Domini, idest proxime adhaerens spiritalis Olympus, sedes Spirituum Domini, fovebat eum sua luce vivifica, et recte est factum, ut qui attinens est principio lucis toto corpore et tota mole lucem combiberet, propterea nobis invisibilem quia corpulentia solidiore non terminatur». (Vedasi anche Commento sopra una canzone d'amore di Benivieni, 1, 10.) Il termine ebraico menzionato qui è  (merefeth). Interessante notare è la glossa di Efrem Siro citata da Pico in questo brano in cui l'autore siriaco dice esplicitamente che fu il vento e non lo Spirito del Signore che volava o covava sopra le acque. Vedasi T. Kronholm, Motifs from Genesis I-II in the Genuine Hymns of Ephrem the Syrian, Coniectanea Biblica, vol. 11 (Lund: Gleerup, 1978) pp. 43-44. Pico pensava forse ad un altro testo quando scrisse il sopracitato passo dell'Heptaplus: il De Genesi ad litteram di S. Agostino in cui questi faceva riferimento alla «cova»: «Nam et illud quod per graecam et latinam linguam dictum est de Spiritu Dei, quod superferebatur super aquas, secundum syrae linguae intellectum, quae vicina est hebraeae, (nam hoc a quodam docto christiano syro fertur expositum) non superferebatur, sed fovebat potius intelligi perhibetur. Nec sicut foventur tumores aut vulnera in corpore aquis vel frigidis vel calore congruo temperatis; sed sicut ova foventur ab alitibus, ubi calor ille materni corporis etiam formandis pullis quodammodo adminiculatur, per quemdam in suo genere dilectionis affectum» (1, 18, 36). Cfr. anche Basilio di Cesarea, Omelie sull'Esamerone, II. Più avanti nell'Heptaplus (6, 5), Pico torna a questa stessa immagine («Nam et docet nos prima dies tunc primum aquis, depulsa nocte, obtortam lucem cum Spiritus Domini eis incubit») e cita Giacomo 1, 17.

3 Pico allude qui, come dice di nuovo nell'Heptaplus, alla «separazione delle acque» nel libro di Genesi (1, 7-9) in due parti: le acque superiori e quelle inferiori (cfr. Es. 20, 4 e salmo 148, 4). Le acque superiori, come ripete nell'Heptaplus (sp. 7, 3), si identificano con i Cherubini (Proemio II), i Serafini e i Troni (3, 3). Nel Vecchio Testamento (cfr. Geremia 10, 2) esse rappresentano gli Ebrei (7, 2) mentre quelle inferiori simboleggiano i gentili (7, 2) e in senso più ampio il modo terreno da cui i cristiani sono sciolti, come da sotto un giogo (7, 3). Inoltre, Pico riporta citando Genesi la concezione di un firmamento, cioè il cielo stellato, interposto da Dio tra le due acque (2, 3). Le acque sotto il firmamento erano originariamente i sette pianeti che, radunati tutti insieme, generarono il mare e l'oceano da cui, secondo i Caldei, provennero gli elementi nutritivi che a loro volta stimolarono la crescita e la rigenerazione delle piante e degli animali (2, 3; 3, 4; et al.). In senso metaforico, le acque inferiori vennero a simboleggiare anche le caratteristiche sensuali e sensoriali dell'uomo (4, 3). Le acque sopra cui vola lo «Spirito del Signore» sono quelle superiori. Questo «Spiritus Domini» è nell'Heptaplus un sinonimo dello Spirito dell'Amore (3, 2), dell'illuminazione del nostro intelletto ispirata da Dio (4, 2; 5,1 e 6, 2) e anche di quello che dà forma al mondo materiale (1, 2). Nel Commento sopra una canzone d'amore di Benivieni (2, 17a), Pico dice che le acque superiori sono la viva fontana che soddisfa per sempre la sete dell'uomo. Cfr. Giovanni 4, 13-15. Considerate alla luce dei precetti cabalistici, le acque superiori possono identificarsi con la quinta serifah (il Giudizio di Dio) e le inferiori con la quarta (l'Amore, secondo l'interpretazione pichiana). Cfr. Conclusiones 379, 872, 895; Farmer (1998, 549 et passim). Quanto alle preghiere antelucane, si veda Concl. 392.

4 Giacobbe vide Dio qui sulla terra solo in sogno (Gen. 28, 11-17); nel cielo, però, lo si vede anche nelle ore di veglia.

5 L'idea che alcune parti dell'anima possano ostacolare il processo di purificazione spirituale e filosofica (paragrafi 83-85) risale al Fedone di Platone (64c-67b) in cui la padronanza dell'appetito fisico è la base della rettitudine morale.

6 Fonte probabile di queste similitudini è il De Iside e Osiride di Plutarco (18). Dopo la morte di Osiride, Tifone (il cui rapporto di parentela con i Titani si rivela nel LXIX libro) scopre il suo cadavere e lo taglia in pezzi. Iside poi ne raccoglie quasi tutti e, con l'aiuto di suo figlio Horus (identificato già da Erodoto con Apollo, 2, 144), sconfigge Tifone. Di conseguenza, Osiride viene considerato il dio dei morti ma anche della vita rinnovata tramite la figura di Horus (che, come Apollo, è spesso associato al Sole). È interessante notare che una espressione molto simile si trova nel Somnium Scipionis (1, 12, 12) di Macrobio, in cui è Bacco e non Osiride che viene smembrato dai Titani e dopo riacquista la sua forma corporea. È possibile che Pico avesse in mente tutti e due questi brani quando compose questa sezione dell'Oratio e che qui volesse produrre una sorta di sintesi dei due miti. Cfr. Commento sopra una canzone d'amore di Benivieni 2, 8.

7 In realtà fu Geremia e non Giobbe che fece un patto con Dio prima di nascere (Ger. 1, 5).

8 Si può riconoscere in questi versi un'allusione anche ad Enea che, «fato profugus», fu «iactatus ... in alto» (cfr. Eneide, 1, 2-3).

9 Pico sviluppa in modo più dettagliato la metafora della «bestia multiforme» in Heptaplus 4, 5-7 e si riferisce all'affermazione di Platone, Repubblica 588d, secondo la quale i nostri desideri segreti si possono paragonare alle varie bestie che vivono dentro di noi. (Cfr. Eusebio di Cesarea, Praeparatio evangelica 12, 46.) Pico scrive, «Sic etenim a natura institutus homo, ut ratio sensibus dominaretur, frenareturque illius lege omnis tum irae tum libidinis furor et appetentia».

10 Per capire la similitudine dell'«icta porca», bisogna ricorrere a Virgilio che, nell'ottavo libro dell'Eneide, racconta della pace fatta tra Romolo e Tazio sopra la scrofa immolata (8, 639-641): «post idem inter se posito certamine reges / armati Iovis ante aram paterasque tenentes / stabant et caesa iungebant foedera porca». Questo brano viene tradotto da Pico in termini cristiani e ripetuto qui per raffigurare il «patto di santissima pace».

11 L'«amicizia» in questo contesto va intesa sia come una forma di charitas sia come la forza generale di attrazione, molto discussa da Empedocle e analizzata da Aristotele (Met. 985a20-30), che, presso Pico, si traduce in quell'energia che sprona l'anima verso l'unione con Dio. L'anima, in cui è innata una certa predisposizione per l'amicizia (I Sam. 18, 1), tende sempre verso l'alto, verso il sommo bene.

12 Pico spiega questa «pienezza di vita» che si chiama la morte molto più chiaramente nel suo De ente et uno (cap. 5). Dopo aver citato la Bibbia (I Cor. 15, 31; Rom. 7, 24) e Seneca (Ep. 102 e 120), Pico descrive la nostra vita terrena come una specie di morte nel senso che l'anima è semplicemente una vivificazione temporanea del corpo; non è uno stato esistenziale in cui si può definire l'essenza dell'anima. La «vita» dell'anima è invece lo stato pieno dell'essere e, siccome lo studio della filosofia è appunto la contemplazione dell'essere, esso costitiusce l'oggetto principale dello studio del filosofo. Cfr. l'ultima frase del De ente et uno. Si vedano anche Fedone 82b-84b e Commento sopra una canzone d'amore di Benivieni, note alla IV stanza.

13 L'immagine del nettare celeste in questo contesto risale alla metafora platonica dell'auriga che, dopo aver condotto l'anima al cielo, ristora i suoi cavalli con ambrosia e nettare (Fedro 243e-257a). Fortissimo fu l'interesse di Ficino per questo «inno» mistico, di cui scrisse più volte, e che occupa infatti quasi tutto il suo commento sul Fedro. In una lettera da lui inviata a Giovanni Cavalcanti (De raptu Pauli ad tertium coelum [Opera omnia, vol. 1, pp. 697 sqq.]), Ficino accosta il modello dell'auriga di Platone alla visione paolina del cielo (cfr. II Cor. 12, 2-4 e ¶ 72 di sopra). Il motivo si ripete, inclusa la menzione dei cibi divini, in altre due opere: nel De voluptate, spiega che l'ambrosia rappresenta la contemplazione e il nettare simboleggia la gioia di essere vicini a Dio; in De amore (7, 14), l'ambrosia e il nettare raffigurano insieme la visione miracolosa del cielo: «Obicit illis ambrosiam et super ipsam nectar potandum, id est, visionem pulchritudinis et ex visione letitiam». Queste due interpretazioni si ritrovano insieme in un terzo passaggio, il suo commento sul Filebo (cap. 34): «Levitas enim ignem sursum traxit, et ignem in superioribus detinet et obicit intellectui ambrosiam, id est, visionem, voluntati nectar, id est, gaudium». Un altro passo ficiniano può aiutarci a chiarire meglio le parole di Pico: nella Theologia Platonica (18, 8), pubblicata nel 1474, Ficino commenta la concezione platonica dell'anima: «Addit eisdem una cum superis illic alimentis, scilicet ambrosia et nectare vesci. Ambrosiam quidem esse censet perspicuum suavemque veritatis intuitum, nectar vero excellentem facillimamque providentiam». Le varie interpretazioni del significato del nettare celeste si ritrovano inoltre in molte lettere di Ficino. È probabile che Pico si riferisse inizialmente a questa concezione platonica a proposito della presenza nel cielo del nettare ma che, sulla falsariga dell'interpretazione plotiniana (Enneadi 3, 5, 9) di un passo nel Simposio di Platone (203b-c), abbia aggiunto il riferimento all'ebbrezza degli angeli, un'allusione, secondo Plotino, al modo in cui la conoscenza viene comunicata dai livelli superiori a quelli inferiori. Vedasi anche Commento sopra una canzone d'amore di Benivieni, (2, 14a, note alla III stanza e note alla IV stanza in cui fa riferimento alla Guida degli smarriti di Maimonide [2, 12]). In ogni caso, occorre distinguere questo tipo di nettare dal «nectar philosophiae», decisamente meno giovevole, di cui parla Boezio nel suo De disciplina scholarium 5 (PL vol. 64, coll. 1233C-D).

14 Per cogliere il significato dei ¶¶ 105-107, bisogna ricorrere alle diverse descrizioni bibliche dedicate ai tempi e ai compiti dei preti. La maggioranza degli studiosi attribuisce le miracolose immagini del ¶ 107 alle visioni dell'Arca dell'Alleanza (Es. 25-26). Certo è che la frase «pellicea elementa» si comprende chiaramente solo in rapporto alle pelli messe sopra la parte esterna dell'arca (Es. 26, 14; 36, 19; 39, 33. Cfr. Cassirer, Kristeller e Randall, 233). Le pelli potrebbero essere simboli cristologici e/o immagini del Peccato e della Redenzione (cfr. Conclusiones 764-765 e Farmer [1998, 489-490]). Similmente, il candelabro a sette fiamme è possibilmente ispirato alle «septem lucernas» di Es. 25, 37-39; la decorazione siderea è probabilmente un riferimento ai vari colori (blu, scarlatto, porpora e oro) delle tende del tabernacolo (Es. 26, 1-6). L'aspetto di maggior importanza contenuto in questo brano è la suddivisione del luogo santo in tre parti, ognuna delle quali corrisponde ad un livello d'illuminazione filosofica. Questa è un'innovazione interessante nella gerarchia fisica che caratterizza spesso le descrizioni bibliche dell'arca. La parte esterna del tempio è quella che appartiene alla gente immonda o comune. I leviti sono i responsabili del santuario (cfr. Num. 1, 47-53; 3, 5-10; 18, 1-7; Ez. 44, 15-17, ecc.). Al centro del tempio, cioè in quella parte amministrata dai discendenti di Aronne, è collocato il «velum» («nullo imaginis intercedente velo») dietro il quale si è direttamente al cospetto di Dio. Nel primo proemio dell'Heptaplus, Pico spiega che Mosè s'illuminò interamente dalla luce divina, ma che rivelò le verità agli uomini secondo la loro capacità di comprenderle (cfr. Sal. 118, 11; I Cor. 5, 11). È questa l'idea che informa gli ultimi paragrafi di questa sezione. Nel secondo proemio dell'Heptaplus Pico interpreta in modo analogo l'organizzazione tripartita del mondo strutturato secondo i vari gradi di comprensione raggiungibile: il livello superiore è quello che i teologi chiamano «angelico» e che i filosofi chiamano «intelligibile»; il livello intermedio è il mondo celeste; il mondo inferiore è quello sublunare, abitato dagli uomini. Questi tre mondi trovano corrispondenza nelle indicazioni di Mosè concernenti la costruzione del tabernacolo. Pico insiste su questa serie di similitudini, come lui stesso ci dice, perché per loro tramite l'uomo può riconoscere meglio la via verso l'unione con Dio. Si ricordi che fu con lo spirito, cioè attraverso la cognizione intellettuale o intuitiva, che Mosè e Paolo videro Dio senza «la mediazione di alcun velo d'immagine». Cfr. Commento sopra una canzone d'amore di Benivieni, 2, 9.