1 liberalità: nel pensiero umanistico tre-quattrocentesco assume un duplice significato, sempre riferito all'humanitas, a partire dalle fonti classiche tra cui primeggia Cic. Così il Battaglia: "disposizione a spendere e a donare...con larghezza munifica o, anche, con prodigalità"; e "elevatezza e nobiltà d'animo, generosità, magnanimità, benignità, cortesia". Insieme alla magnanimità, cui prelude, è una delle virtù celebrate ad es. nella X giornata del Decameron, come liberalità e munificenza (sopr. dei signori), gratuita elargizione anche della propria vita (una sorta di sublimazione della logica mercantilistica che soggiace ad altre parti dell'opera). Nella letteratura latina umanistica del Quattrocento non sono tuttavia da trascurare le fonti patristiche (cf. E. Garin, La Dignitas Hominis e la lettaratura patristica, Torino: Giappichelli, 1972). Fondamentale dunque, nel contesto ravvicinato dell'Oratio, l'innesto tra liberalitas dei e liberalitas hominis (-um). La seconda può essere concepita come un riflesso speculare della prima.

2 felicità: altra parola chiave nel pensiero umanistico tre-quattrocentesco (sopr. quattrocentesco) che va oltre le definizioni aristotelico-scolastiche (cf. ad es. Dante, Conv.: "Lo Filosofo nel primo de l'Etica...diffinisce la felicitade, dicendo che felicitade � operazione secondo virtude in vita perfetta" -- e cf. più oltre alla nota 21), verso una (platonica e neo-platonica) ri-definizione dinamica dell'humanitas (nel caso di Pico in stretto rapporto con la divinitas insita in essa, v. nota precedente). Giannozzo Manetti (1396-1459) nel lib. IV del suo De dignitate et eccellentia hominis, confuta, sulle orme di Lattanzio (cfr. Garin 1972, 23-sgg.) le opinioni di coloro, antichi e moderni, pagani e cristiani, che insistevano sulla miseria della vita umana e accenna alla felicità come attributo di una vita virtuosa: "...tutti gli accurati osservatori dei celesti precetti avranno senza dubbio in sorte di essere subito dalla nascita fortunati, e sempre felici e beati in eterno" (Garin, Prosatori Latini del Quattrocento, Milano-Napoli: Ricciardi, 1952, 485). Venendo a un contesto ancora più vicino a Pico, cfr. Lorenzo de' Medici: "Nascono tutti gli uomini con un naturale appetito di felicità, ed a questo come a vero fine tendono tutte le opere umane" (Battaglia, V, 795). Come attesta il seguito della frase, l'accento su appetito (desiderio) e volontà è fondamentale per Pico, in chiave gnoseologica oltre che e più che pratica (oltre cioè la tradizione ciceroniana del "gubernare terrena"). In questo contesto non è fuori luogo ricordare anche Virgilio, Georg. II, 490: "Felix qui potuit rerum cognoscere causam". Cfr. anche sopra, n. 12.

3 bulga, voce latina di origine gallica viene tradotta con "utero" per similitudine (Tognon, 62).

4 Cfr. sopra, nota 6. Da vedere il secondo proemio dell'Heptaplus (Garin 1942, 193): "É espressione comune nelle scuole che l'uomo è microcosmo, in cui il corpo è misto degli elementi, in cui v'è lo spirito celeste, l'anima vegetale delle piante, il senso dei bruti, la ragione, la mente angelica e l'immagine di Dio". Non sono dunque da trascurare le fonti patristico-medievali di questo passo, cui richiamano sia Garin che De Lubac con riferimento, tra gli altri, a Giovanni di Salisbury (cfr. TL, gl. 33) e Alan de L'Isle nel cui Liber de Planctu Naturae "la possibilità per l'uomo di degenerare nella bestia e di rigenerarsi in Dio sono espressi in termini molto simili a quelli pichiani" (Garin, 1972, 37 e cfr. TL, gl. 33). Tognon richiama invece come sfondo per tutto questo contesto dell'Oratio (6-8) Scoto Eriugena (De divisione naturae lib. III, c. 37, PL 122, 732 B-C e lib. IV, c. 5, 754 A-B). Del sopra richiamato (sia da Garin che da De Lubac) Alano di Lilla, non sarà inutile cfr. anche il sermone Ad somnolentes (PL, 210, 195-96) in cui (rifacendosi a Gen. II: "Misit Dominus soporem in Adam...") si parla di un triplice sonno (sovrumano e miracoloso, umano e immaginario, sub-umano e mostruoso): mediante il primo l'uomo si fa Dio, mediante il secondo si fa spirito, mediante il terzo fiera o bestia ("Per primum fit homo Deus, per secundum spiritus, per tertium pecus"). Ma anche nel secondo sonno si sognano cose mostruose: "In primo somniat vera, in secundo monstruosa; tertius vero fit nocte peccati..." (In Cantica, PL 206, 245 AB). Commenta De Lubac: "Ces sortes de «métamorphoses», de «transmutations», de «transfigurations», de «conversions» tiennent une grande place, au douzième siècle et plus tarde encore, dans la littérature spirituelle. Depuis Origène, Ambroise et Augustin, la rhétorique mise en oeuvre n'a guère changé... l'Oratio ne fait que redire en propres termes, pour exprimer exactement la même idée, ce qui avait été dit plus de vingt fois auparavant...", De Lubac, 198-99). In generale, e sulla scorta di questa citazione, sembra di poter sostenere piuttosto (con Garin, correggendo il tono sostanzialmente riduttivo del De Lubac) che la presenza di fonti patristiche per alcuni motivi dell'Oratio non deve impedire di vederne quanto meno i diversi accenti, la rigenerata retorica se non anche la fondamentale trasposizione di significato "spirituale". Impegnati come sono nella loro denuncia, i padri della Chiesa e gli autori medievali monastici, con l'eccezione di mistici come San Bernardo, forniscono una vera e propria (allegorica e teologica) "menagerie" dell'abbrutimento umano in una varietà di fiere e animali, a seconda dei peccati, cui si accompagna come corollario il corrompimento e vaneggiamento demonico della facoltà immaginativa e raziocinante (San Tommaso); fondamentalmente impegnato invece a esaltare le possibilità di trascendenza insita nella natura (e immaginazione) umana camaleontica appare Pico, in cui sopravvivono anche echi della grande tradizione stoica, con Filone, Nemesio, Lattanzio, ecc. innestatasi nella spiritualità ebraico-cristiana e oltre, verso l'età di mezzo, di opere come il De opificio dei di Gregorio di Nissa (che a a sua volta riecheggia il De opificio mundi di Filone Alessandrino) fino ad Alano di Lilla, cfr. Garin 1972, 18-sgg.: "Sotto l'influsso delle nuove speculazioni religiose la greca elaborazione della humanitas si spiritualizzava nel mistero dell'Uomo-Dio...E non è un caso che la più bella esaltazione dell'uomo nel Rinascimento si trovi ancora, secondo la tradizione, in un commento al racconto biblico, nell'Heptaplus di Giovanni Pico. In tal direzione appunto aveva, già nella letteratura patristica, preso senso la dignitas hominis...", Garin 1972 18 e 28.

5 caligine : usato in due diversi contesti di significato, entrambi fondamentali e correlati tra loro: come attributo originario divino (simil. notte, abisso ecc.) e come termine problematicamente ermeneutico (l'oscurità della mente e della ragione che ottunde, ma anche la condizione "mistica" per penetrare nel mistero divino). In questo secondo significato il riferimento fondamentale di Pico (che ritorna anche in altre opere, cf. TL, gl. 36) è (tramite Marsilio Ficino) a Dionigi Aeropagita, il quale meglio di tutti descrive la condizione di chi è sine interprete, senza intermediario tra sè e la divinità (cfr. P, Garin 239). Da vedere su questo Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Milano: Adelphi, 1971 (1958-68), il quale a pag. 77 scrive: "Nella sua prefazione alla Teologia mistica di Dionigi Areopagita, il nome Dionigi (in latino Dionysius) dette a Ficino l'occasione di definire bacchico l'approssimarsi a Dio mediante una negazione dell'intelletto". Stessa costellazione in Pico, ove i riferimenti ai "misteri" orfici e dionisiaci (vedi sotto, n. 24) si mescolano a quelli alla teologia mistica dell'Areopagita e al ruolo "camaleontico" e "proteico" attribuito, con Ficino (cfr. TL, glossa 36), all'immaginazione o fantasia umana. Ancora Wind accentua gli elementi mistici nella posizione di Pico, rispetto a Ficino (78-79): "Portando alla sua conclusione logica il paradosso da lui stesso proposto, Pico elaborò un radicalismo mistico che Ficino non era preparato ad accettare...Egli credeva che per ascendere verso quella "caligine in cui Dio risiede" (De Ente, V -- Garin, 412)...l'uomo debba abbandonarsi completamente a uno stato di non-conoscenza e avvicinarsi al segreto divino nella cecità dell'autodistruzione". Cfr. la stessa ambivalenza figurata nei sonetti ital. XVI, IV "di caligine opaca dianci pieno"; XXX, 6: "di caligine operto è 'l vivo ragio (sic)" (Dilemmi, 33 e 61). Gian Francesco dice che Pico nel De Ente ci rende edotti dei gradi della caligine divina (cfr. TL, glossa 36). Su questa strada Dionigi Areopagita e i misteri orfici incontreranno la Kabbalah, in una nuova costellazione ermeneutico-mistica sui cui sviluppi (nei confronti polemici di Ficino) si veda ancora Wind, 79-sgg. e 335-sgg. (sull'identificazione dell'ebbro Poros del Simposio, "figlio del Consiglio"). Si veda più oltre l'Oratio stessa, 20, 134 v, sul "duplice furore" socratico-mosaico, e rapimento apollineo-serafico: "Allora Bacco signore delle Muse, mostrando a noi, fatti filosofi, nei suoi misteri, e cioè nei segni visibili della natura, gli invisibili segreti di Dio, ci inebrierà con la ricchezza della dimora divina, in cui se noi saremo fedeli come Mosè, la santissima teologia avvicinandosi ci animerà di duplice furore..."

6 Si può risalire ad Aristotele che introduce l'immagine del camaleonte trattando nell' Etica a Nicomaco (libro I, 1100 a, 5-sgg.) della felicità -- che "richiede una perfetta virtù e una vita compiuta" -- nei confronti della mutevolezza umana e della "fortuna". E scrive: "É infatti evidente che se noi seguiamo i casi della fortuna, troveremo spesso che una stessa persona ora è felice, ora invece è infelice, considerando dunque quell'uomo felice come una specie di camaleonte o qualcosa di fondato su basi difettose" (tr. it. di A. Plebe, in Aristotele, Opere, Bari: Laterza, 1973). Rispetto ad Aristotele che privilegia la "stabilità", Pico sembra accentuare invece qui in positivo gli elementi di mutevolezza (si può forse intravedere qui un implicito riferimento al grande tema tardo-medievale e umanistico della Fortuna). Ma il riferimento più importante ci riconduce nuovamente a Ficino e per l'esattezza a quel passo del commento sul commento di Prisciano ai detti di Teofrasto, un passo fondamentale (TL, gl. 36), segnalato da Garin, ove l'attributo camaleontico (e proteico) è predicato della fantasia (immaginazione) umana, con un fondamentale spostamento di prospettiva. Cfr. quanto scrive Garin stesso, "Phantasia e Imaginatio fra Marsilio Ficino e Pietro Pomponazzi", «Giornale critico della filosofia italiana», III, 1985...

7 Nelle Conclusioni sul modo di interpretare gli inni di Orfeo secondo magia, al numero 28 troviamo il seguente aforisma: "Colui che non può attrarre Pan invano si avvicina a Proteo" (cfr. TL, gl. 37). Wind (op. cit., 241): "La mutabilità, secondo Pico, è la porta segreta attraverso cui l'universale invade il particolare. Proteo si trasforma continuamente perchè Pan è insito in lui". Questo enigma sembra designare una situazione originaria della comunicazione col e interpretazione del divino (nel senso pichiano) da parte del camaleonte senza forma che tutte le forme proteicamente effinge e contempla, contribuendo ad esplicare in sè quello che nella divinità e ancora in germe o in potenza, nei suoi gradi ascendenti, esplicandone e "purificandone" gradualmente e progressivamente i "nomi". Ancora Wind (267): "La dottrina che Pan è nascosto in Proteo che la mutabilità è la porta segreta attraverso la quale l'universale invade il particolare ha il merito di un risultato filosofico peculiare: fornì una convincente giustificazione mistica a uno stato mentale eminentemente ragionevole" (ove Wind sembra attenuare il suo giudizio sul radicalismo mistico di Pico).

8 Enoch: sia Garin che Tognon rimandano semplicemente a Enoch, ossia al Libro etiopico di Enoch, risalente al I o II sec. A. C. e base di molta letteratura apocalittica e di alcune correnti della mistica ebraica (da distinguere da un Libro dei segreti di Enoch di cui esistono manoscritti di epoca medievale, intorno ca. al 1200, in lingua slava). Ma dal contesto ("la più segreta teologia ebraica") non sembrerebbe azzardato ipotizzare invece un rinvio al cosiddetto Terzo Libro di Enoch, compilato presumibilmente intorno al V o VI sec. d.C. in Babilonia (cfr. Dictionary of the Bible, I, 704, sgg.). Potrebbe trattarsi dunque si un riferimento a un testo tardo apocalittico che fa riferimento alla corrente mistica della Merkavà, anch'esso circolante in mss. medievali (di testi cabbalistici in ebraico, sine titulo, è copiosa la biblioteca di Pico, cfr. Kibre). Nella tradizione ebraica molte leggende si raccolgono intorno a Enoch (figlio di Jared, padre di Methuselah, settimo nella discendenza adamitica sulla linea di Seth) che "camminò col Signore", venne elevato al cielo senza abbandonare la forma corporea e venne ivi trasfigurato. Nella tradizione, Enoch viene rappresentato come inventore delle lettere, dell'aritmetica e dell'astronomia e come "primo autore". Nel cosiddetto Terzo Libro di Enoch (o Libro di Enoch dei mistici della Merkavà, cfr. G. Scholem, "La mistica della Merkavà e la gnosi ebraica", in Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it. Milano: Il Saggiatore, 1965, 95) spec. 3:1, 16:5, l'elevazione di Enoch viene data in due versioni, nella seconda delle quali Enoch è "preso su con la Shekhinà" e "trasmutato" come Metatron (secondo la prevalente etimologia: "Methathronius= colui che sta accanto al trono, di Dio" -- Scholem, op. cit., 97). Aggiunge Scholem: "Enoch...dopo una devota vita terrena, fu innalzato al rango di primo degli angeli e Sar ha-panìm (alla lettera: principe del volto divino, o della presenza divina). «Dio mi prese via dalla progenie del diluvio universale, e mi trasportò sulle ali tempestose della Shekhinà al più alto dei cieli, e mi portò nei grandi palazzi in cima al settimo cielo 'Aravòt, dove sono il trono della Shekhinà e la Merkavà, le legioni dell'ira, e gli eserciti del furore, gli Shin'anìm del fuoco, i Keruvìm delle fiaccole fiammanti, gli Ofannìm delle breci infuocate, i servitori delle fiamme e i Seraphìm dei fulmini, ed Egli mi collocò là perchè servissi il trono della gloria»". Pico nell'Oratio non parla di Metatron ma semplicemente di "angelo della divinità" o "angelo dello spirito divino" come suggerisce Tognon traducendo l'ebraico malakh hashekhinah inserito da Pico nel testo latino. Ma il riferimento è presente nel Commento "sopra la particulare esposizione della subiecta canzona di Hieronymo Benivieni" quasi negli stessi termini dell'Oratio : "...né altrimenti el detto si debbe intendere de' sapienti cabbalisti quando o Enoch in Matatron (sic), angelo della divinità, o universalmente alcun altro uomo in angelo dicono trasformarsi" (Garin, 1942, 554). Shekhinah, in origine la manifestazione femminile di Dio nell'uomo, viene spesso identificata con lo Spirito Santo e l'Epinoia dello gnostico Valentino; nello Zohar (Esodo, 51a), è "la via dell'albero della Vita" e "l'angelo del Signore" (cfr. A Dictionary of Angels, by Gustav Davidson, N.Y.: Free Press, 1968, 272). É certo che questa citazione, non esattamente verificabile nel testo del Libro Etiopico di E., allude al complesso dell'angelologia che Pico sviluppa nell'Oratio e altrove. La metamorfosi di Enoch è la più rilevante delle metamorfosi cui allude poco sopra enigmaticamente Pico ("cabalista cristiano") ed è questo il contesto che ci interessa più da vicino (nel Comento il contesto rimanda chiaramente al Fedro platonico). Ancora Scholem: "Poco prima del II sec. d. C. il patriarca Enoch, trasformatosi in angelo, venne identificato con l'angelo Yahoèl o Yoèl, che ha una parte importante, a volte di primo piano, negli scritti della più antica mistica del trono e ancora molto tempo dopo nelle apocalissi. Le caratteristiche principali di quest'angelo sono state attribuite a Metatròn..." (95).

9 "...finora sono nato come fanciullo, fanciulla, pianta, uccello, e muto pesce del mare" (Empedocle di Akragas, fr. 117, cfr. K. Freeman, Ancilla to the Pre-Socratic Philosophers, Oxford, 1952, 65).