§ 20.
109. In realtà non soltanto i misteri mosaici1 o cristiani, bensì anche la teologia degli antichi2 ci mostra l'utilità e la dignità delle arti liberali di cui sono qui venuto a discutere.
110. A cos'altro mirava infatti l'osservanza, nei misteri greci, dei diversi gradi iniziatici? Solo dopo essersi purificati tramite quelle arti che, dicevamo, sono in certo modo espiatorie, e cioè la morale e la dialettica,3 gli iniziati ottenevano l'ammissione ai misteri.4
111. La quale in che altro può consistere se non nell'interpretazione della natura più recondita per il tramite della filosofia?
112. A questo punto erano finalmente preparati al sopraggiungere dell',5 cioè dell'intima visione delle cose divine mediante il lume della teologia.
113. Chi non desiderebbe di venire iniziato a tali sacri rituali?
114. Chi, messa da parte ogni umana sollecitudine, disprezzando i beni della fortuna e trascurando il corpo, non vorrebbe divenire, mentre ancora si trova qui sulla terra, commensale degli dèi, e madido del nettare dell'eternità ricevere, animale mortale, il dono dell'immortalità?
115. Chi non vorrebbe venir pervaso dall'afflato di quei furori socratici6 che Platone celebra nel Fedro, ed esserne trasportato, dopo rapidissimo viaggio, nella Gerusalemme celeste, fuggendo prontamente in un remeggio d'ali e di piedi da qui - ossia da questo mondo, che è consegnato al maligno?
116. Verremo condotti via, o Padri, verremo condotti via dai furori socratici, che a tal segno ci faranno uscir di mente, da porre la nostra mente e noi stessi in Dio.
117. Verremo condotti via da essi, comunque, solo se prima avremo condotto a termine noi stessi quello che sta in noi; infatti se da un lato, mediante la morale, le forze delle passioni saranno state opportunamente tese, nelle debite proporzioni, secondo le misure armoniche, così da accordarsi l'una all'altra in perdurante consonanza, e se dall'altro lato la ragione, mediante la dialettica, procederà a tempo nel suo cammino, allora, eccitati dal furore delle muse, attraverso l'udito interiore berremo la celeste armonia.
118. Allora Bacco, condottiero delle Muse,7 nei suoi misteri (cioè tramite segni visibili della natura) mostrerà a noi che filosofiamo le cose invisibili di Dio, e ci inebrierà dell'abbondanza della casa di Dio, dove se in tutto saremo fedeli come Mosé, la santissima teologia a noi accostandosi ci animerà di un duplice furore.
119. Infatti sollevati fino alla sua altissima specola, di lì commisurando all'indivisa eternità le cose che sono, che sono state e che saranno, e rimirando la primeva bellezza, di quelle saremo i febei vati, di questa saremo gli alati amanti, e infine, sospinti, come da un estro, da ineffabile amore, trovandoci fuori di noi stessi quasi fossimo Serafini ardenti, ricolmi della divinità, ormai non saremo più noi stessi, ma quegli stesso che ci fece.
§ 21.
120. I sacri nomi di Apollo, se indaghiamo i loro significati e i misteri in essi celati, mostrano a sufficienza come quel dio sia, non meno che vate, filosofo.
121. Ma avendo Ammonio8 su questo argomento già detto quanto basta, non ho motivo di trattarne ora altrimenti; rivolgiamo invece il nostro pensiero, o Padri, ai tre precetti delfici,9 assolutamente necessari a coloro che intendono entrare nel tempio, sacrosanto e augustissimo, non del falso, ma del vero Apollo che illumina ogni anima che viene in questo mondo; vi accorgerete che essi a null'altro ci esortano, se non ad abbracciare con tutte le nostre forze la filosofia tripartita della quale stiamo qui discutendo.
122. Infatti il celebre («nulla di troppo») giustamente prescrive quale regola e norma di ogni virtù il criterio della medietà, di cui tratta la morale.
123. Segue poi il famoso («conosci te stesso»), che ci incita e ci sprona alla conoscenza della natura tutta, della quale la natura dell'uomo costituisce l'elemento intermedio e per così dire la miscela.
124. Chi infatti conosce se stesso, in se stesso conosce ogni cosa, come ebbero a scrivere prima Zoroastro e poi Platone nell'Alcibiade.
125. Da ultimo, una volta che la filosofia naturale ci abbia illuminati con questa conoscenza, ormai vicinissimi a Dio, dicendo («tu sei») ci rivolgeremo al vero Apollo con un saluto teologico, chiamandolo così con espressione familiare e del pari felice.
§ 22.
126. Ma consultiamo anche il sapientissimo Pitagora,10 sapiente soprattutto perché mai si ritenne degno di tale nome.11
127. Ci prescriverà in primo luogo di «non sedere sopra il moggio», esortandoci con ciò a non disperdere, abbandonandola nell'ozio e nell'inerzia, quella parte razionale con cui l'anima misura, giudica ed esamina ogni cosa; ma al contrario a indirizzarla e a incitarla costantemente con l'esercizio e la regola della dialettica.
128. Inoltre ci indicherà due cose dalle quali dobbiamo prima di tutto guardarci: e cioè dal mingere contro il sole e dal tagliarci le unghie durante il sacrificio.
129. Ma dopo che, grazie alla morale, avremo espulso da noi i torbidi appetiti di piaceri superflui, ed avremo reciso, quasi fossero unghie, le acuminate esuberanze dell'ira e gli artigli dell'animosità, allora dovremo finalmente disporci a prender parte ai sacri rituali, cioè ai già menzionati misteri di Bacco, e a dedicarci a quella contemplazione di cui giustamente il sole vien detto essere per noi padre e guida.
130. Da ultimo Pitagora ci esorterà a «nutrire il gallo», cioè ad alimentare la parte divina dell'anima con la conoscenza delle cose divine, quasi si trattasse di solido cibo e di celeste ambrosia.
131. Questo è il gallo il cui sguardo incute paura e rispetto al leone, cioè ad ogni potere terreno.
132. Questo è quel gallo a cui, leggiamo in Giobbe, fu data l'intelligenza.
133. Quando questo gallo canta rinsavisce l'uomo che si trova nell'errore.
134. Questo gallo nel crepuscolo mattutino unisce il suo canto alle lodi che gli astri del mattino rendono a Dio.
135. Questo è il gallo che Socrate in punto di morte, allorché sperava di congiungere il divino dell'anima sua alla divinità di un mondo più grande, disse di dovere ad Esculapio, ovvero al medico delle anime, giacché ormai si trovava oltre qualunque pericolo di malattia corporale.
§ 23.
136. Ma esaminiamo ora anche le tradizioni dei Caldei,12 e ci accorgeremo (se prestiamo loro fede) che le arti che aprono ai mortali la via verso la felicità sono le stesse anche per loro.
137. Gli interpreti caldei riportano una sentenza di Zoroastro secondo la quale l'anima è alata e, quando perde le ali, precipita nel corpo, mentre vola di nuovo in cielo allorché le ali ricrescono.
138. Domandandogli i discepoli in che modo potessero ottenere anime dalle ali ben piumate e capaci di volare, rispose: «Irrorate le ali con acque di vita».
139. E chiedendogli ancora dove potessero attingere queste acque, rispose loro con una parabola (come era suo costume): «Il paradiso di Dio è purificato e irrigato da quattro fiumi.
140. Da questi traete le acque per voi salvifiche.
141. Quello che scorre da settentrione ha nome , che significa ciò che è retto, e quello che scorre da occidente si chiama , che vuol dire espiazione; quello che viene da oriente si chiama , che sta per luce, mentre quello che scorre da meridione ha nome , che possiamo tradurre come pietà».
142. Ora riflettete attentamente e considerate, o Padri, a cosa mirino queste dottrine di Zoroastro: di certo a null'altro se non a farci espiare con la scienza morale, quasi si trattasse di flutti iberici, la sozzura dei nostri occhi; e a farci rettificare lo sguardo con la dialettica, quasi fosse una livella boreale.
143. Poi a far sì che, contemplando la natura, ci abituiamo alla luce ancor flebile della verità, quasi fosse il primo albeggiare del sole; perché infine possiamo, grazie alla pietà teologica e al santissimo culto di Dio, sostenere saldamente, quasi fossimo aquile del cielo, l'abbagliante splendore del sole meridiano.
144. Sono queste, forse, le famose conoscenze mattutine, meridiane e vespertine dapprima cantate da Davide e poi ampiamente spiegate da Agostino.
145. Questa è la luce meridiana che infiamma in linea retta i Serafini e che del pari illumina i Cherubini.
146. Questa è la regione verso la quale costantemente tendeva l'antico padre Abramo.
147. Questo il luogo dove, secondo le dottrine dei cabalisti e degli Arabi, non c'è posto per gli spiriti impuri.
148. E, se è lecito render pubblico, sia pure sotto forma di enigma, qualcosa dei più reconditi misteri,13 dopo che la repentina caduta dal cielo ha condannato il capo dell'uomo alla vertigine e, stando a Geremia, la morte entrata dalle finestre ci ha colpito al fegato e al petto, invochiamo la presenza di Raffaele,14 medico celeste, affinché ci liberi tramite la morale e la dialettica, quasi fossero salvifici medicamenti.
149. Allora, recuperata la buona salute, verrà ormai a dimorare in noi la forza di Dio, Gabriele, il quale guidandoci attraverso le meraviglie della natura e mostrandoci ovunque la virtù e il potere di Dio, ci consegnerà infine al sommo sacerdote Michele, che congedatici ormai noi dal servizio filosofico, ci renderà onore con le insegne del sacerdozio teologico, quasi fossero una corona di pietre preziose.